Truci dal ghigno facile largo agli “arditi” della Grande Guerra
L’editore Gaspari pubblica le memorie dell’udinese Bassi La nascita delle truppe d’assalto, spina nel fianco del nemico

Truci, dal ghigno facile, pronti a tutto, propugnatori di una fede patriottica da fanatismo. È questa l’immagine classica e popolare tramandata a proposito degli arditi. I difensori austro-ungarici del monte San Gabriele ne saggiarono per primi l’ardore e il coraggio. Ritenevano di occupare una posizione inespugnabile, a lungo gli attacchi italiani erano falliti, ma il 4 settembre 1917 gli asburgici dovettero fronteggiare un nemico insolito: soldati agili e veloci, con le mostrine nere, che li colpirono all’improvviso usando bombe a mano, pugnali e lanciafiamme. Poi, anche se isolati, respinsero i contrattacchi nemici fino all’arrivo dei rinforzi. Erano appunto gli arditi, le nuove truppe d’assalto già entrate in azione un paio di settimane prima, ma quel giorno colsero un successo eclatante.
A guidarli era chi li aveva immaginati, plasmati, creati, il maggiore Giuseppe Alberto Bassi, classe 1884, udinese, nipote per parte di madre di uno dei martiri di Belfiore. Deciso e convinto, si era distinto con azioni estreme sul Carso durante le quali aveva maturato l’idea che si doveva operare attraverso manovre d’attacco più audaci per uscire dalla terribile trappola del conflitto di trincea che andava avanti dal maggio del 1915. Per ovviare a quella terribile prassi, Bassi pensò di costituire piccoli nuclei leggeri formati da volontari con particolari doti psicofisiche, integrate da uno specifico addestramento e con armamento leggero costituito da bombe a mano e pistole mitragliatrici. L’atto di nascita degli arditi ha come teatro il Friuli. Avvenne il 29 luglio 1917 a Sdricca di Manzano dove c’era una collinetta che si prestava alle esercitazioni a fuoco. Per quell'evento arrivò dalla sua villa di Torreano anche il re Vittorio Emanuele IIII che immortalò il tutto con la macchina fotografica Kodak. Per l’occasione venne inventata una canzonetta in rima che diceva: «Il ventinove luglio/quando si taglia il grano/è nato un fiero ardito/con un petardo in mano/ Bin, bon, ban». Tutto bene? No, perché il generale Cadorna aveva concesso quasi tutto quanto chiesto da Bassi, come un aumento di stipendio per i volontari e le mostrine nere (prodromo simbolico di ciò che sarebbe successo dal 1922), ma aveva detto di no alla giubba aperta e al teschio da morto sul maglione. Trucchi ideati dal maggiore per incutere più terrore al nemico. Ma a dargli il benestare fu lo stesso re, evidentemente di buon umore quel giorno.
Questa più o meno è la storia degli arditi, che poi ebbero un ruolo significativo nella fase finale della Grande Guerra e nelle vicende successive dell’Italia dannunziana e in camicia nera. Ad aprire uno spiraglio inedito e sorprendente su quel mondo è un diario spuntato fuori adesso, a un secolo di distanza, e pubblicato dall’editore Gaspari di Udine che continua ad alimentare la sua collana storica proponendo saggi, carteggi e documenti come se uscissero da una miniera inesauribile. Si intitola “Memorie di un ardito, 1916-1920”, un libro di 180 pagine, prezzo di copertina 18 euro, a cura di Paolo Giacomel, grande scopritore di queste chicche, e con prefazione di Basilio Di Martino, uno dei maggiori esperti sul tema dei reparti d'assalto. A scrivere il diario fu Dante Alfonso Mazzucato, padovano, contadino, cattolico, terziario francescano. L’aspetto insolito è dunque che tra quei “fanatici” con il pugnale tra i denti ci fosse chi aveva un credo religioso molto forte e uno spirito patriottico personale che contrastava con la linea ufficiale del Papa e della Chiesa, durissimi contro “l’inutile strage”. Al di là di tale singolarità, a risultare interessante e coinvolgente è il contenuto stesso del testo che appare per la prima volta ponendosi al livello delle principali testimonianze su quella guerra, come i celebri “Trincee” di Carlo Salsa e “Diario di un imboscato” di Attilio Frescura. Il racconto di Mazzucato si sofferma sul Carso, sul Friuli, su Udine, narrata nei giorni della disfatta di Caporetto quando la tenacia degli arditi si distingueva nel disastro generale. Abbiamo così una cronaca viva di quegli avvenimenti, sorretta da una forma letteraria eccellente e da una lucida capacità nel cogliere ogni dettaglio. Finita la guerra, gli arditi di Bassi vennero mandati a controllare i territori annessi al Regno d’Italia, ma l’accoglienza non fu da liberatori, come Mazzucato sperimentò nelle Valli del Natisone e a Idria. Lui, divenuto sergente e dai commilitoni chiamato “Fiero Lampo” mentre da francescano diventerà Fra Gaudenzio da Villa del Bosco, venne congedato il 20 maggio 1920. Poi tornò in Friuli per le commemorazioni o per rivedere i luoghi dei combattimenti. In tali occasioni Fra Gaudenzio si distingueva sempre, in mezzo a gagliardetti e medaglieri. In uno dei raduni a Sdricca (che lui aveva ribattezzato “la nostra Porziuncola”) propose di chiamare il paese “Manzano degli arditi” com’era accaduto con “Ronchi dei legionari”. Dopo qualche tiepido consenso, nessuno lo ascoltò.
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