Tracce di sangue sul lavatoio, il primo racconto in finale per il premio Scerbanenco

Ecco il primo racconto finalista del premio Scerbanenco@Lignano: si tratta di “Sangue sul lavatoio”, di Giuseppe Mariuz (San Vito al Tagliamento. Nei prossimi giorni pubblicheremo gli altri due racconti giunti in finale: “La saracinesca abbassata”, di Silvia Monego (Trieste) e “Sul Tagliamento”, di Raffaele Serafini (Lestizza). Tre anche i finalisti della sezione “Ragazzi”: Stefano Di Iulio (Udine), Alberto Mizza (Udine) e Stefano Corradin (Lignano). Sabato 31 alle 18,30 in Terrazza a mare le premiazioni con lo scrittore Carlo Lucarelli, presente anche a una serata speciale venerdì 30 alle 21 in Biblioteca
Il commissario Marini osservava con espressione perplessa il verbale del maresciallo Esposito, comandante della locale stazione dei Carabinieri Reali, giacente in bella evidenza sul suo tavolo sopra un pacco di vari dossier, fascicoli, atti. L’aveva letto e riletto più volte, vagamente indispettito, oltre che per gli strafalcioni ortografici, per la disarmante sicumera con cui il caso veniva risolto.
Certo, la politica e gli organi di stampa premevano per una rapida individuazione del colpevole e una condanna esemplare, data la notorietà della vittima; ma il suo scrupolo di servitore fedele della Corona e di garante della legalità esigeva che nessuna falla nelle indagini venisse facilmente tamponata e che la prova madre fosse sorretta da inconfutabili riscontri fattuali. Pertanto, aveva chiesto l’autopsia e il referto, senza autorizzare la sepoltura. Nel frattempo, nella cittadina si era scatenata un’altra ondata di violenze.
Aristide Rossetti, all’alba del primo marzo, giorno delle Ceneri dell’anno di grazia 1922, era stato trovato cadavere nel fossato del paese da un gruppo di operaie che si recava al lavoro in filanda. Riverso con la testa a pelo acqua, una profonda ferita visibile alla tempia sinistra, il corpo e le gambe all’asciutto sugli ultimi scalini che scendevano al lavatoio, l’abito di gala della festa di carnevale ancora immacolato.
Le indagini del maresciallo Esposito avevano accertato che Aristide Rossetti, fattore delle tenute dei conti Frangipane, aveva nei giorni precedenti il decesso inviato la disdetta, per ragioni di moralità e mancato rispetto dei patti agrari, alla famiglia dei suoi coloni Cozzarini.
Giovanni Cozzarini, primogenito del capofamiglia, noto sindacalista delle Leghe rosse e sobillatore della quiete pubblica – così affermava il verbale –, aveva pubblicamente dichiarato in piazza e in osteria che la terra apparteneva a chi la lavorava, presto sarebbe arrivata la rivoluzione bolscevica e se il fattore nel frattempo avesse osato cacciarli, avrebbe prima dovuto regolare i conti con lui. Alle parole aveva aggiunto un eloquente gesto di taglio della gola. Alcune testimonianze affermavano che nella notte di carnevale il Cozzarini si era intrattenuto nella vicina trattoria al Bacaro, situata nei pressi del palazzo del fattore e di fronte al lavatoio, per uscirne solo al momento della chiusura. Omicidio volontario e premeditato, dunque.
Il Cozzarini, però, pur ammettendo le minacce, negava ogni responsabilità personale su quella morte e dichiarava di essere rientrato subito a casa alla chiusura del locale, poco dopo la mezzanotte. Non conosceva le abitudini del suo fattore e non aveva idea dove fosse. Come avrebbe potuto tendergli un agguato? Non creduto, era stato rinchiuso nel carcere mandamentale.
Una bella rogna, pensava il commissario. Erano tempi infuocati, e il Rossetti ci aveva messo del suo per attizzarli. Nella sua scheda personale stava scritto che in tempo di guerra era stato impiegato in fureria prima a Udine e, a seguito della ritirata di Caporetto, in un deposito militare di Padova, vale a dire si era imboscato; subito dopo l’armistizio, non aveva esitato a unirsi ai nazionalisti, scendendo nelle piazze a gridare “Vittoria mutilata”. Vantava amicizie con sedicenti futuristi, frequentava bordelli e ambienti equivoci ove circolavano droghe e alla fine del Diciannove aveva raggiunto per un breve periodo i legionari dannunziani a Fiume, con compiti imprecisati e probabilmente – pensava il commissario – solo per essere più libero nelle sue dissolutezze. A causa della morte improvvisa del padre alla fine del 1921, era subentrato nei compiti di amministratore delle tenute dei conti Frangipane, distinguendosi subito per intransigenza verso i coloni e avvio di misure drastiche come le disdette. A quel periodo veniva ascritto il suo passaggio politico ai fascisti e la sua nomina a segretario del PNF. La scheda non segnalava sue azioni violente ma frequenti contatti con Associazione degli agrari e caporioni squadristi. Uomo di collegamento per finanziare questi ultimi – deduceva il commissario –, sapendo di come certi energumeni rissosi erano stati dotati improvvisamente di mezzi ed equipaggiamenti.
Il commissario Marini, nella sua lealtà verso lo Stato sabaudo e lo Statuto Albertino, non sopportava nemmeno che il maresciallo Esposito ostentasse l’appoggio ai fascisti in funzione antisovversiva. Non che lui simpatizzasse con i popolari e, men che meno, con socialisti e comunisti, però era inaudito che negli ultimi mesi fossero proprio delle squadre di facinorosi armati di coltelli, manganelli e persino fucili a sostituirsi all’autorità statale, incontrando connivenze anziché venir represse. La relazione del maresciallo era quantomeno inficiata dai pregiudizi.
Andava compiuto un supplemento di indagine sul luogo della morte, quantunque non si fosse proceduto alla delimitazione dell’area e si fossero così perse possibili tracce. Bisognava altresì esplorare la vita di Aristide Rossetti, specie nell’ultimo periodo, per quanto riguardava il lavoro, le frequentazioni politiche, sentimentali e amicali, i suoi movimenti e le operazioni economiche e finanziarie.
Innanzitutto, verificò di persona che tra filandine, curiosi e carabinieri giunti sul posto, era difficile risalire alla posizione della vittima sul fosso; tuttavia, esisteva una evidente traccia di sangue raffermo in fondo ai ripidi scalini, sullo spigolo del lavatoio di pietra.
Per le testimonianze, il commissario iniziò dall’Adalgisa, maitresse del bordello, luogo ove assieme agli sfoghi sessuali dei convenuti si udivano vanti e millanterie che spesso erano confessioni. L’Adalgisa era reticente come un prete in confessionale e Marini dovette ricorrere a pressioni paventando controlli di polizia e revisione della concessione, fino a che venne a sapere che vi erano rancori tra il Rossetti e certo Amerigo Gualtieri, ex ardito già fondatore e segretario del Fascio che si era visto sostituire nell’incarico dal Rossetti. Era emersa un’accesa rivalità con accuse di codardia da parte del Gualtieri e conseguente sfida a duello, cui Rossetti si era vigliaccamente sottratto, tanto che il fascista spodestato prometteva che non sarebbe finita lì.
Il Rossetti, secondo l’Adalgisa, assumeva spesso una polverina bianca, forse cocaina o forse oppiacei, che offriva anche alle signorine per coiti turbolenti e selvaggi. Largheggiava nelle mance ostentando le disponibilità economiche.
Il commissario si era accertato poi che il Rossetti amava sfoggiare amicizie altolocate e annunciare imminenti cambiamenti politici in cui sarebbe divenuto protagonista; nel contempo, aveva tentato vari approcci per fidanzarsi con Elisabetta Fornaciari, figlia bella e altera del direttore della filanda, su cui incombevano altri pretendenti. Alla buvette del teatro Italia, prestigiosa sala ove s’era svolta la festa di carnevale, secondo la testimonianza del cameriere Perin erano volate parole pesanti tra il giovane avvocato Luigi Valle e il Rossetti, dopo alcuni giri di valzer di entrambi con la ragazza. Il Valle aveva atteso l’uscita del Rossetti per abbandonare la sala a sua volta, forse per inseguirlo. Entrambi avevano ordinato più volte alcolici e barcollavano vistosamente.
Materiale ce n’era in abbondanza per perdersi, meditava il commissario Marini, accarezzandosi i suoi baffi a manubrio di stampo ottocentesco che segnalavano come fosse un uomo d’altri tempi. Nel frattempo, una squadra di fascisti in camion era tornata nella cittadina per manganellare, sicuramente su ordinazione, due fratelli di Giovanni Cozzarini, somministrare olio di ricino al padre e bruciare il loro fienile. Per loro, il colpevole era già individuato. Il procuratore del re esigeva una rapida chiusura delle indagini e il maresciallo Esposito aveva fatto intendere che lui il suo compito lo aveva svolto compiutamente e la responsabilità del ritardo ricadeva su altri.
Il referto dell’autopsia lasciava a desiderare per la sua sinteticità e mancanza di utilizzo delle ultime scoperte scientifiche, in particolare sulle analisi del sangue e delle sostanze chimiche rinvenute nel naso e nella bava; il commissario ebbe il dubbio che fossero state esercitate pressioni anche verso il medico anatomo-patologo per chiudere velocemente il caso. Tuttavia, alcuni elementi parevano incontrovertibili. La morte andava fissata fra le tre e le cinque antimeridiane del primo marzo; era stata riscontrato un trauma da sfondamento al lato temporale sinistro del cranio con formazione di ampio ematoma; i polmoni non contenevano acqua; le pupille erano dilatate oltre misura normale; vi erano residui di alcol ingerito da poco e non ancora assimilato.
Il commissario Marini, dopo aver soppesato le varie ipotesi, si convinse che la soluzione fosse la più banale. Rossetti stava rientrando a casa ubriaco e probabilmente drogato, sostenendosi al muretto ed era scivolato rovinosamente sul fossato all’altezza del lavatoio, dove si apriva la scalinata che scendeva verso l’acqua.
Non era stato aggredito da nessuno, né dal Cozzarini né dall’avvocato Valle né dal Gualtieri, perché non vi erano segni di colluttazione, anzi il vestito era integro e portava ancora la farfallina al colletto. Capitombolando, aveva battuto fatalmente la tempia allo spigolo del lavatoio di pietra.
Il commissario Marini sedette al tavolo, scrisse la sua relazione, incluse il verbale del maresciallo Esposito e il referto autoptico. Valutò che non sarebbe stato creduto perché la politica esigeva un colpevole. Senza contare che Giovanni Cozzarini era più sicuro di sopravvivere in carcere che in libertà. Amareggiato, scrisse una seconda lettera al suoi superiori: la richiesta di essere collocato in quiescenza.
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