Strage di vipere per vincere l’epidemia di peste: l’antidoto di Venezia usato in tutta Europa

La triaca fu proposta come rimedio a partire dal 1348 e la sua fama venne meno con l’entrata in scena di Napoleone

Mitridate, il re del Ponto, soleva assumere un po’ di veleno al giorno, cioè l’antidoto, scrivono gli storici antichi, per poter all’occorrenza resistere a dosi massicce di qualsiasi veleno. Se efficace, quella era una cura sicuramente utile per i regnanti, esposti al pericolo di avvelenamento da parte dei loro parenti e cortigiani.

Anche Nerone prendeva il “mitridato”, e si nutriva soltanto con vini e piatti preventivamente assaggiati da un uomo di fiducia. Ma il suo medico per maggior sicurezza aggiunse all’antidoto la carne di vipera essiccata, e il “medicamentum”, che secondo Plinio era composto da cinquantaquattro sostanze, assunse il nome di triaca o teriaca (dal greco Therion, animale velenoso).

Quel contro veleno, che doveva essere ben efficace se lo assumevano i più ricchi e potenti, fu poi considerato una panacea, cioè un rimedio per tutti i mali.

Nel Medio Evo gli alchimisti, che con la pietra filosofale dicevano di poter trasformare in oro qualsiasi metallo, divennero naturalmente produttori di panacee, che furono ritenute utili anche contro la peste a partire dal 1348.

Poteva Venezia, la magica Venezia, lasciarsi scappare una simile occasione?

Certo che no: produsse, infatti, e lanciò a livello europeo la “triaca veneziana”, ottenuta da farmacie specializzate e attentamente sorvegliate. Tra le più famose quelle “Allo struzzo”, “Al Paradiso”, “Alla testa d’oro”, “Al pomo d’argento”, “Alli due mori”, “All’aquila nera”...: una dozzina, in totale, le “triacanti”, tutte in Venezia.

Quale la composizione del miracoloso farmaco?

L’elemento primario era la carne essiccata di vipera, mescolata con componenti amari e sedativi: zafferano, valeriana, pepe lungo, cinnamomo, oppio, mirra, polvere di mummia e anche incenso, timo, tarassaco, genziana, angelica, centaurea minore. la matricaria, il vino di malvasia e altri per un totale di circa cinquanta sostanze.

Le vipere dovevano essere femmine ma non gravide e catturate lontano dal mare per non essere impregnate di salsedine. Le preferite erano quelle dei Colli Euganei.

Naturalmente esistevano leggi e regolamenti che disciplinavano la produzione, e libri che illustravano componenti e dosaggi per un prodotto molto costoso, venduto in bossoletti di piombo che nel coperchio recavano il marchio di fabbrica, ovvero l’insegna della farmacia. A garanzia dell’autenticità, cioè del rispetto del Capitolare degli Speziali del 1565, la fabbricazione della triaca avveniva in pubblico e sotto il controllo dei “Ministri di Giustizia” e dei “Signori Dottori del Collegio dei Periti dell’arte dello Spezier”. Il processo di lavorazione, che poteva iniziare soltanto dopo tre giorni di esposizione al pubblico degli ingredienti, si concludeva con un rinfresco per speziali e collaboratori, che ricevevano anche una confezione del prezioso prodotto.

Una volta fabbricata, la triaca non poteva essere venduta e consumata prima di sei mesi. I medici, che la preferivano invecchiata, ne sconsigliavano l’uso nella stagione calda. Per la stagione fredda prescrivevano due scrupoli (grammi 1,046) per ogni fase lunare.

Come ben si comprende si trattava di una specie di cura preventiva a largo spettro, molto costosa e quindi riservata alle classi alte, esportabile in tutta Europa (ma l’acquistò anche il Gran Kan della Cina) per soddisfare una domanda costante o crescente perché il contagio era sempre in agguato. Prescritta contro la peste, era consigliata anche ai viaggiatori, che dovevano difendersi dal freddo, dai venti cattivi e dall’aria malsana!

La fama della triaca veneziana era legata anche alla rarità di alcuni dei suoi componenti, in particolare delle spezie, per le quali Venezia, grazie ai suoi commerci con il Levante, deteneva una specie di monopolio.

La fama della triaca, che alcuni (pochi) giudicavano usurpata anche nei secoli della sua fortuna, svanì con la caduta di Venezia per mano di Napoleone nel 1797, quando mancava ancora un secolo alla scoperta della pulce come veicolo della “Yersinia pestis” portata dal topo.

Ripensando ai cacciatori di vipere sui Colli Euganei, non si può non provare compassione per la strage di un animale sicuramente velenoso, ma riservato e solitario, che attacca l’uomo solo per difesa, e non è un veicolo della peste!


 

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