Anzovino torna al teatro Verdi di Pordenone in solo: «Racconto le storie chiuse nei cassetti»
Vent’anni di carriera discografica, il musicista si esibirà mercoledì 4 giugno alle 21 nella sua città natale: «Qui ho imparato che si può esprimere, sperimentare

Vent’anni di carriera discografica, ventidue titoli fra dischi e colonne sonore, concerti in mezzo mondo, una prossima data estiva anche al Copenaghen jazz festival che ha in cartellone nomi come Herbie Hancock e Norah Jones, un tour attuale nei maggiori teatri italiani, con una chiusura simbolica: mercoledì 4 giugno Remo Anzovino torna in piano solo, alle 21, al Teatro Verdi di Pordenone.
La sua città. Lì dove tutto è iniziato. E dove – dopo 13 anni dal concerto all’alba sul Noncello – chiuderà idealmente un cerchio, per aprirne un altro. «Era giusto che ci fosse una tappa in Friuli. E ho chiesto che fosse Pordenone. Ogni tanto sento il bisogno di restituire qualcosa alla mia città. L’emozione è grande, so che il teatro è quasi esaurito”.
Un ritorno che sa di origine. Di bilancio, anche. Cosa vede, se si guarda indietro?
«Vedo un percorso coerente. Nel 1994 ho capito che sarei stato un compositore. Avevo 18 anni, in 4ª liceo, al Palio studentesco. Scrissi le musiche per uno spettacolo allestito da Fabio Scaramucci. Alla fine, agli applausi sulle mie note realizzai che potevo dire qualcosa di mio, e di unico, con la musica».
Da lì, tutto è cominciato?
«Iniziai a scrivere le musiche per gli spettacoli di Ortoteatro. E nel 2002 la Cineteca di Bologna mi chiamò per sostituire Marco Dal Pane nella sonorizzazione di “Nanuk l’esquimese”. Mi ritrovai, a 25 anni, con un contratto per dieci film muti. Lì ho compreso che la mia musica sarebbe stata legata alle storie».
Anche nei dischi la narrazione ha un ruolo centrale.
«Sempre. Scrivo prima una storia, un soggetto. Poi la musica. È un atto narrativo. La mia è una coerenza fra costruzione sonora e racconto. È così che sono riconoscibile».
Nel nuovo disco “Atelier” (Decca), registrato nello studio dell’artista Giorgio Celiberti, ha riscritto brani dei primi album per pianoforte solo. Una sorta di ri-composizione.
«Sì, era un’esigenza reale. Ho capito che se volevo far funzionare brani nati per la band dovevo riscriverli da capo. E ho voluto registrare lì, nella straordinaria atmosfera dell’atelier di Celiberti, con il pubblico quasi addosso, senza distanze. È stato fantastico: quel disco ha qualcosa di irripetibile. Una magia».
E la scenografia è una parte integrante. I fondali di Celiberti sono un’estensione visiva del suo suono.
«Sì, sono dentro lo spettacolo, come il pubblico. Nel suono. Non c’è separazione. E io mi sento a mio agio, libero”.
Carlo Massarini l’ha definita “seduttore sonoro”, Geppy Cucciari “portatore sano di bellezza”. Di contro c’è chi definisce la sua musica “troppo melodica”. Come risponde?
«Nel 2004, quando uscì il mio primo disco “Dispari”, la melodia era quasi un reato nella musica strumentale. Considerata sorpassata. Io la rivendicavo. La melodia non è semplificazione: è forza. È ciò che rende riconoscibile la mia musica anche nei pezzi più minimalisti. Poi c’è ciò che avviene prima della musica:non compongo per parlare di me stesso, ma per raccontare le storie che stanno nei cassetti chiusi della gente. La musica è uno strumento per aprirli».
Ha detto che la sua città le ha dato tutto…
«Pordenone mi ha insegnato che ci si può esprimere, sperimentare. Crescere in una città dove era normale mettere in piedi una band, sentire la radio americana grazie alla base Usaf, vivere la grande eredità del Great Complotto… è stato formativo. Poi i miei genitori, napoletani, ci hanno fatto crescere nella cultura millenaria di Napoli, ma anche con la consapevolezza del territorio: Pasolini, Tina Modotti, il Vajont. Tutto questo ha generato il mio modo di sentire».
Il futuro? Cosa sogna per i prossimi vent’anni?
“Ho la fortuna di avere davanti a me tanti progetti. Sto lavorando alla colonna sonora del nuovo film su Pasquale Rotondi, l’uomo che salvò 8 mila opere d’arte dalla guerra. E sogno un’arte che fonde i linguaggi: musica, immagini, parola. Il futuro è lì».
E guardandosi indietro, farebbe qualcosa diversamente?
«Ho avuto i miei bivi e ho imboccato strade non sempre facili. Ma quelle giuste. Adesso celebro un traguardo, certo. Ma mi preparo anche a scrivere la seconda parte del racconto».
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