Spiro, l’ultimo dei romantici nell’alpinismo

di LUCIANO SANTIN
“Only faded away”, svanito nel cielo, ma sempre presente, con gli antichi compagni di croda, e con quelli nuovi, che dai suoi libri hanno avuto richiamo e imprinting di formazione. Se n’è andato l’altra sera, alla vigilia dei cent’anni che avrebbe compiuto a febbraio, Spiro Dalla Porta Xydias, patriarca dell’alpinismo regionale e italiano.
Socio onorario del Cai di cui è stato nel consiglio nazionale, decano dell’Accademico, a lungo presidente della XXX Ottobre e del Gruppo italiano scrittori di montagna, ci teneva moltissimo al riconoscimento di cittadino onorario tributatogli da Cimolais, perché – diceva – lo affratellava al Campanile di Val Montanaia.
Al monolite simbolo delle Dolomiti friulane, tra le oltre cento prime ascensioni compiute, sono legate due delle sue imprese più significative: l’invernale agli strapiombi Nord e la parete Est, che era stata tentata senza successo da Emilio Comici. Più importante però dell’attività alpinistica è stata la sua azione di apostolo di un alpinismo etico, improntato all’elevazione interiore, tradottasi in una cinquantina abbondante di libri.
Spiro era nato il 21 febbraio 1917 a Losanna, quando sull’Europa imperversava la Grande guerra, secondogenito di papà Marino Dalla Porta e di Giovanna Xydias, figlia di una delle più facoltose famiglie della borghesia commerciale triestina, di radice greca. L’anno prima suo fratello Spiro Tipaldo Xydias, volontario irredento, era caduto sul Nad Logem, e il nome del piccolo era risultato così quasi obbligato. Le alterne fortune dell’attività paterna, per un periodo anche la presidenza dell’Olympique Marsiglia di calcio, portano il bambino prima, e il ragazzo poi, a conoscere località e situazioni diverse, tra cui anche la montagna, che è però solo luogo di un gioco presago.
Dovranno passare anni di esperienze in svariate discipline, dal calcio al fondo, al tennis, al basket, perché l’alpinismo possa entrare nella sua vita per prenderne subito possesso, con la gioiosa prepotenza dell’amore. Succederà in Val Rosandra, nel 1942. Anni orribili, ma circonfusi nel ricordo dal fresco e glorioso splendore della giovinezza. Comici è da poco caduto in Vallunga, e nel solco dei suoi eredi naturali, quelli che avevano imparato da lui, crescono degli scanzonati autodidatti, i “bruti” (che si contrappongono, appunto, ai presunti “bei”).
L’epopea di questa straordinaria fioritura di talenti Spiro l’ha raccontata in uno dei suoi libri più belli - “I Bruti di Val Rosandra”, vincitore del premio Cortina 1951, un bildungroman che è viatico tecnico, scuola di umanità e di idealità, ma soprattutto omaggio postumo a una stagione luminosa e a una generazione forte ed entusiasta stroncata dalla Seconda guerra mondiale. Molti dei “Bruti”, trascorsi in modo naturale dalla scuola di libertà dell’alpinismo alla Resistenza, infatti, vi si immolarono.
Dalla Valle alla montagna, poi, il passo è breve e naturale. Nessuno, all’epoca, immagina che si possa arrampicare solo per il gusto di superare un monotiro, e anche il “passaggismo” ante litteram sui roccioni di Prosecco serve solo da allenamento. Comincia un lunghissimo rapporto sentimentale prima che tecnico o agonistico, interrotto ma non fermato, dai problemi fisici (una lunga degenza per tbc, conclusa con l’asportazione di due lobi pomonari).
Ha due modelli, Spiro: Emilio Comici, per la generosità e l’entusiasmo, oltre che per la concezione della salita quale opera d’arte; e Julius Kugy, per la limpida, felice vena poetica delle sue narrazioni alpine.
Si esprime, anche lui come Herr Doktor, sulle pagine di roccia e su quelle di carta. L’interesse per la cultura (fa anche il regista teatrale) gli fa centrare l’attenzione sullo spirito: più che l’innalzamento in parete (quel “risultato”, che naturalmente ha sempre contato, ma che oggi sembra assurdamente esaurire tutto), gli interessa il progredire spirituale. Su questo incentra una produzione ricchissima, di oltre cinquanta libri: per lui che il modo di approcciare l’Alpe è l’unica cosa davvero importante: «Può essere più alpinista chi sale una monte per la via normale che non il climber preoccupato solo di superare per primo un passaggio estremamente difficile, trascurando, magari, la cima», dice. E si trasforma in un teoreta ed apostolo della “religione della vetta”, finalizzata all’elevazione morale.
«La diretta personificazione – quasi irreale – di un mito, di un archetipo senza tempo», lo aveva definito anni fa l’allora presidente del Cai Annibale Salsa in prefazione alla sua biografia “L’ultimo dei romantici”. Un anziano caratterizzato «da un approccio ai problemi straordinariamente giovane», anche se i suoi «tratti aristocratici comunicano sicuramente la cifra di un’educazione d’altri tempi in cui la cultura e la nobiltà d’animo fondavano la pratica alpinistica».
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