Il jazz di Out of the Blue, Letizia Felluga: «Un album in cui sono me stessa»

Approda sulle piattaforme il primo lavoro della cantante. «La mia esperienza, gli studi, gli ascolti e mille sound»

Gian Paolo Polesini
La cantante Letizia Felluga in una foto di Luigi Vitale
La cantante Letizia Felluga in una foto di Luigi Vitale

«Scegli una strada e quella sia, ma mettici sempre il cuore nelle cose che fai. L’oculatezza di un uomo del Novecento, qual era nonno Livio, ha determinato la mia formazione umana e artistica». Letizia Felluga canta, e quando lei canta comprendi che il suo non è un timbro abituale: ti arriva addosso con prepotenza e ci resta per un po’. Ci nasci con questa roba qui, poche storie, con quel non so che di unico.

«Avrò avuto quattro anni e un Natale mamma Elda mi regalò una specie di cassa giocattolo con un microfono. Avevo 38 di febbre, ma cantai lo stesso».

“Out of the Blue” è titolo dell’album entrato in un quasi fine luglio 2025 sulle piattaforme Spotify e iTunes. «Per il vinile c’è tempo, ma verrà il momento di appoggiarlo sul piatto», spiega.

I brani sono scritti e musicati dalla stessa Letizia con Mike King, tranne uno. Poi vedremo: Baby Boy, Starting from Tonight, Amelia, Out of the Blue, Loneliness, I Wanna Be, Behind My Mirror, In My Soul.

Il produttore è Ermanno Basso e lo studio di registrazione è quello di Stefano Amerio, ormai un crocevia friulano di artisti internazionali, mentre gli arrangiamenti sono di Claudio Filippini.

In “I Wanna Be”, a un certo punto s’inserisce una tromba, il cui suono lo riconosci fra mille: la tromba è di Paolo Fresu, facile. Non male aver avuto in squadra un asso per il debutto, non crede?

«Un regalo bellissimo. Mi raccontò poi Stefano che nel mentre stava ripassando alcune mie tracce, Paolo era lì e gli chiese: “Ehi, aspetta un attimo, torna indietro…”. E partì con un assolo, come fa lui con la sensibilità incredibile che ha. V’immaginate quando ascoltai la base con “dentro” Fresu? Come essere proiettati su Marte in pochi secondi, la stessa emozione».

Quindi niente azienda di famiglia, Letizia. Musica, musica, musica.

«Così è andata e andrà. Mi hanno lasciata libera, anzi spronata a fare. Zio Maurizio da ragazzina mi regalò i suoi meravigliosi vinili jazz e fu come vincere la lotteria. Con la fortuna, lo ammetto, di poter volare a Londra e iscrivermi alla “Goldsmiths University”, anni di studio e di magico vivere in mezzo a un fervore musicale unico al mondo».

Lei è cresciuta nei Novanta. C’era del buon sound, direi.

«Certo, Mina stava ancora in alto, irraggiungibile. E io la adoravo sebbene fosse ormai “sparita” e legata a un paio di decenni precedenti. Non m’importava. Prendiamo Battisti? La gioventù conosce ancora oggi tutte le parole delle canzoni a memoria, capisce? Esempi infiniti».

E poi c’è l’amore per il Brasile.

«Ho conosciuto Elis Regina ed è scattato l’incanto. Devo ammettere la passione travolgente e credo la si percepisca ogniqualvolta mi piazzo su un palcoscenico. Poi c’è il jazz, chiaramente, il soul, c’è la musica in tutte le sue declinazioni possibili».

Ecco, a proposito: “Out of the Blue”, che poi significa all’improvviso, pur mettendoci tutto il buon orecchio possibile non è catalogabile sotto alcun genere preciso. Vuole darci una mano?

«Abbiamo lavorato tanto proprio per evitare di appartenere a una specie unica, identificata in una sola casella. C’è un po’ di tutto nel disco: la mia esperienza, gli studi, gli ascolti, mille sound. Una cara amica mi chiamò giorni fa per dirmi: “negli otto brani sei tu, Letizia”. Wow, l’avrei abbracciata. Sì, vorrei continuare a essere me stessa probabilmente per sempre, perché canterò per sempre».

Le andrebbe di salutare tutti i suoi musicisti?

«Magari. Federico Casagrande e la sua chitarra acustica ed elettrica, Federico Malaman, basso, Mauro Beggio, batteria, Valerio De Paola, una chitarra in più male non fa, e, ovviamente, Paolo Fresu al flicorno. Finisco con Guido Bottazzo, che ha disegnato la copertina».

E ora arriviamo all’omaggio a Joni Mitchell con “Amelia”. L’unico pezzo dell’album non suo.

«Una dedica doppia, direi. Joni è un faro, la Earhart era incredibile, l’aviatrice americana che sorvolò l’Atlantico nel 1932. La Mitchell compose una canzone dedicata al suo coraggio e io me la sono presa, questa canzone, con tutta la delicatezza e il rispetto del caso. Volevo onorare una grande donna che onora una grande donna». 

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