Seguendo “Una voce dal Profondo”: Paolo Rumiz racconta l’Italia da sud a nord
Esce oggi per Feltrinelli il nuovo libro dello scrittore e giornalista triestino. Un viaggio tra miti, cronaca e storia sulle tracce di vulcani e terremoti

È un viaggio nell’Italia dei terremoti e del sottosuolo l’ultimo libro di Paolo Rumiz, “La voce dal Profondo” (Feltrinelli, pagg. 288, euro 18), da oggi nelle librerie. È il racconto di un lungo viaggio fra miti, cronaca e storia che percorre tutta l’Italia da sud a nord seguendo i suoni, i rimbombi, gli echi, le cavità di un Paese fragile e antico, immemore eppure legato a radici così solide da affondare nelle mitologia più arcaica. Il viaggio si volge dalla Sicilia al nostro Carso camminando idealmente lungo le principali faglie attive che innervano la penisola, quelle fratture del sottosuolo che provocano le scosse telluriche.
Tra vulcani, grotte, tracce e ferite degli smottamenti di ogni tempo Paolo Rumiz si muove cercando il senso di un vuoto che si fa pieno, simbolo e metafora di “un mondo ricco e senza pace, segnato da eruzioni, terremoti, invasioni e guerre” e tuttavia abitato da un’umanità “capace di abbarbicarsi a ciò che di più instabile, pericoloso e precario” la Terra possa esprimere. Viatico di questo percorso è una mappa, la “Carta strutturale-cinematica” dell’Italia messa a punto dal Cnr, scala uno a due milioni, rappresentazione cromatica della complessità geologica - e non solo - della penisola che fissa una storia di milioni anni, “capace di rappresentare più di qualsiasi mappatura amministrativa la complessità del mio Paese, piantato in mezzo al Mediterraneo fra tre continenti”.
Il racconto, che prende spunto da un serie di viaggi compiuti dal 2009 al 2023, alcuni dei quali, come il terremoto di Amatrice, comparsi nei reportage per “la Repubblica”, inizia dall’isola di Alicudi, la più remota delle Eolie, dove una notte l’autore sente un suono sordo, “un rullio sommesso che cresceva”: è il rumore della terra, un fenomeno geologico che gli isolani chiamano “u trenu”, il treno, ed è, appunto, la voce del Profondo.
Rumiz si mette sulle tracce di questa scia sonora, e da lì parte risalendo regione dopo regione lo stivale: Calabria, Puglia, Basilicata, Campania, Molise, Abruzzo, Lazio...E per ogni tappa evoca vicende, leggende, miti, incontra personaggi, interroga la Storia e dove può, come a Napoli, si infila nel sottosuolo per sondare con mano quella geografia del vuoto, come la chiamano gli speleologi, quel sottomondo che tante volte fa da specchio capovolto a ciò che accade e si muove in superficie.
Come già in altri libri - da “La cotogna di Istanbul” a “Canto per Europa” - ciò che preme a Rumiz è rendere vivo il mito, o meglio, cercare nel mito il senso e il significato del qui e adesso. “Vulcani, caldere, fanghi ribollenti, soffioni, fumarole” sono in realtà il mezzo attraverso il quale decifrare gli enigmi della società e persino della politica in cui sguazziamo ogni giorno. La scelta stessa del percorso, da sud a nord, lo esplicita. Già quando si era messo a lavorare al suo libro “La leggenda dei monti naviganti”, per esempio, Rumiz aveva intuito “che alla narrazione dominante, quella della corrente civilizzatrice che parte dal Piemonte per strappare il Meridione alla barbarie, fosse necessario opporne un’altra: quella di una corrente spirituale che, partendo dal Meridione, si era scontrata con un Nord troppo impegnato a faticare”. Ed ecco che seguendo le linee di faglia di un’Italia “in stato di perenne emergenza”, dove la memoria invece di essere fonte di prevenzione viene “considerata catastrofismo anziché saggezza”, porsi all’ascolto del Profondo ci ricorda che, alla fin fine, “non ci salverà il determinismo materialista, ma il pensiero visionario”.
Perché da Amatrice al terremoto del Friuli del ’76, le cicatrici della terra sono un monito destinato a restare inascoltato. E diventano un’altra chiave di lettura per interpretare gli italici smottamenti, per un libro che non è un’inchiesta, ma che dell’inchiesta ha il carattere e l’efficacia.
Il viaggio di Rumiz termina sul Carso, altra terra cava - “bagnata dal sangue della Grande guerra”- che funziona da sismografo: qui, “dietro casa, nel bosco, passano i laceri afghani in fuga dalla miseria; sotto il paese sono transitati fino a ieri donne, vecchi e bambini in cerca di una tregua dalla macelleria ucraina”. E da qui, riflette Rumiz, “mi è più facile immaginare la Penisola tagliata per lungo da un crepa. Una fenditura che squarcia e al tempo stesso nutre l’identità degli italiani”.
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto