Saviano: "L’Italia non è il Paese della verità, ma guai a smettere di scrivere"

«In Italia non si può dire la verità». Roberto Saviano, uno tra gli scrittori più conosciuti e letti sia in patria sia all’estero, è amaro e al tempo stesso duro con la cultura che esprime il nostro Paese. Con Gomorra ha raggiunto ogni angolo del pianeta e con il successo sono arrivate anche le minacce di morte della camorra che non gli ha perdonato di aver rivelato i perversi meccanismi criminosi. Dal 13 ottobre del 2006 è così costretto a vivere costantemente sotto protezione. Ciò non lo ha intimidito, gli ha dato al contrario ancor più forza e coraggio, consapevole del potere della sua parola letteraria.
Nella biografia che compare sul suo sito si legge che «continua a scrivere nonostante tutto». Un impegno che gli è valso anche il prestigioso premio FriulAdria 2015, che ritirerà il 23 maggio, nell’ambito del festival di “èStoria” di Gorizia. Nella motivazione del riconoscimento si legge: «Roberto Saviano ha indagato la natura antropologica del fenomeno camorristico col distacco di uno storico, senza timori e senza nascondersi dietro la maschera dell’ipocrisia».
- Qual è il confine nelle sue inchieste tra cronaca e storia?
«Non esiste confine. La cronaca senza storia, senza essere narrativizzata, senza essere tradotta e diventare comprensibile, resta notizia. Quello che a me interessa è fermare il rullo delle notizie in continuo movimento, bloccarlo per un attimo e tirar fuori un evento che valga la pena esser comunicato con maggiore attenzione. Un evento attraverso il quale raccontare uno spaccato di mondo». Lei affronta il male della corruzione e la lettura dei suoi libri lascia un senso di frustrazione e di paura.
- Come si può arginare il male?
«Con l’attenzione, con la conoscenza, con la lettura, con la condivisione, con il dibattito. Il male fa paura perché si preferisce non parlarne, si preferisce descrivere solo quanto di bello l’Italia ha, piuttosto che affrontare seriamente il marcio, salvo poi dire che tutto è uno schifo e tutto va ripudiato, rottamato, dato alle fiamme. Parlare di criminalità organizzata e corruzione non significa diffamare il Paese, ma amarlo e tutelare la sua parte sana, che è quella maggiore».
- Lei ha denunciato i mali del Sud, ma nello stesso tempo ha messo in guardia il Nord contro le inflitrazioni mafiose. Le cosche ormai hanno invaso il Settentrione, come dimostrano le cronache quotidiane. Fra tanti consensi, lei ha raccolto anche molte contestazioni. Al Sud la accusano di aver contribuito a consolidare l’immagine di un Meridione illegale, violento e irredimibile; al Nord, invece, la accusano di aver fatto carriera come professionista dell'Antimafia, richiamando il famoso “anatema” di Sciascia. Si può dire la verità in questo Paese?
«No. Non si può dire. In questo paese puoi dire che tutto fa schifo, ma poi devi ricordarti di citare pizza, sole, mare, opere d’arte e bellezze naturali. Ti accusano di diffamare se racconti ciò che accade e di piegarti al potere se indichi una strada possibile. È molto difficile essere uno scrittore di questi tempi, uno da cui ci si aspetta indicazioni, se non riesci ad assumere posizioni massimaliste, se non accetti di assecondare le paure di chi ti legge o ti ascolta. Anche se io credo nelle persone e credo davvero che siano molto meglio di come i media amano descriverle. Forse perché credere di star parlando a chi non ha aspettative è molto più semplice che scrivere per chi vuole davvero risposte».
- In generale qual è la funzione del romanzo rispetto al male? Non c’è il rischio di mitizzarlo a prescindere dalle intenzioni dell’autore e di costruire eroi negativi?
«Non credo che sia possibile prescindere dalle intenzioni dell'autore. Giuseppe Marrazzo nel Camorrista tratta Cutolo come un eroe, ma non come un eroe positivo o come un esempio da imitare. Si percepisce una grandezza intrinseca del personaggio, quel suo avere una marcia in più rispetto a chi gli sta attorno, ma non è per esaltarlo che Marrazzo ne scrive. Tutt’altro: Cutolo è grande nella follia, nell’efferatezza, nell’essere un uomo senza scrupoli, nel saccheggiare la sua terra, nel privare chiunque della propria dignità e della libertà di poter decidere del proprio destino. A nessuno verrebbe in mente di emulare Cutolo dopo aver letto Il camorrista, come credo che a nessuno venga in mente di attribuire fascino ai boss di cui scrivo in Gomorra o in ZeroZeroZero, a quelli che abbiamo mostrato nel film di Garrone o nella serie televisiva. Chi mai proverebbe empatia per Ciro l’immortale che tortura e uccide un adolescente, che devasta qualunque cosa tocchi. Non sono personaggi costruiti per essere amati e le loro storie, anche quando i nomi sono d’invenzione, rispecchiano la realtà».
- Chi è Saviano: un uomo che si è dato una missione o piuttosto uno scrittore moralista?
«Nessuna delle due definizioni credo mi si addica. Sono sicuramente un incosciente, uno che non ha calcolato i danni, ma che non ha intenzione di arretrare, di abbandonare le proprie posizioni. Quando ho scritto Gomorra non mi aspettavo di finire sotto scorta e, come sempre dico, è l’attenzione di lettori e media che ha fatto la differenza e ha reso le mie parole pericolose. Non sono un moralista perché non credo nella purezza, credo che il crimine debba smettere di essere conveniente, non credo che non si debbano commettere reati semplicemente perché è male o contrario alla morale. E non mi sono dato una missione se non quella, comune a ogni scrittore, di provare a incidere sulla realtà con l’unico mezzo a mia disposizione: la parola».
- La cocaina domina il nostro tempo, come era il petrolio per Pasolini. «Guarda attraverso la cocaina, vedrai il mondo», si legge nel suo ZeroZeroZero. Può commentare questa frase...
«La cocaina è una droga performante, serve potenzialmente a chiunque e a chiunque può dare l’impressione di vivere la vita in maniera più intensa, senza sentire stanchezza, senza avvertire limiti. Questo significa «guarda attraverso la cocaina e vedrai il mondo»: significa non fermarti a ciò che appare, chi ti sta accanto potrebbe farne uso senza che tu nemmeno lo sospetti. E chi ti sta accanto non ne fa uso semplicemente per svago, per divertimento o perché è un “tossico”, no. Ne fa uso perché non può farne a meno. Perché senza coca ha come la sensazione di non potercela fare. Ovviamente le ricadute in termini di criminalità e di salute pubblica sono incalcolabili. Ciò che stupisce è come i governi continuino a ignorare il problema, a considerarla questione marginale, che coinvolge quattro sbandati e che al più può interessare le forze dell’ordine».
- In Gomorra c'è un episodio in cui il protagonista e voce narrante si reca sulla tomba di Pasolini a Casarsa per recitare quello che definisce “Io so del mio tempo”. Qual è il suo personale “Io so” e cosa rappresenta per lei Pasolini?
«Io so che non bisogna smettere di raccontare e, molto semplicemente, questo Pasolini mi ha insegnato. Non cercare favori, non ammiccare al lettore, non flirtare con i potenti. Mantenersi distanti, non equidistanti».
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