Ricci/Forte e il teatro dell’oblio nel mondo sporcato dal potere

MARIO BRANDOLIN. Ci avevano lasciato solo un mese fa con una loro personalissima rivisitazione dell’“Edoardo II” di Marlowe, una “Wunderkammer Soap Opera” in cui, a stretto contatto con pochi spettatori, tre performer indagavano solitudine e passione nel deserto di valori e sentimenti che è il nostro tempo. Ed eccoli di nuovo in regione, Stefano Ricci e Gianni Forte, recenti protagonisti della dodicesima Residenza delle arti performative a villa Manin, Dialoghi, il nuovo brand organizzativo del Css, al lavoro per “Oblivion”. Uno spettacolo nato dall’incontro tra uno dei capolavori del teatro tedesco del secolo scorso, quel “Risveglio di primavera” in cui Frank Wedekind denunciava il bigottismo oppressivo della società borghese nei confronti della giovinezza, e uno dei copioni più feroci e visionari di Shakespeare, “Troilo e Cressida”, in cui il grande Bardo metteva a nudo i meccanismi cinici e violenti del potere, colti nelle vicende non proprio eroiche di greci e troiani sulle rive dell’Ellesponto. “Oblivion”, come un famoso film con Tom Cruise, un video gioco, un gruppo italiano teatral-musicale, persino un tango targato Piazzolla... Invece per Ricci/Forte... «Oblivion nel senso più letterale di oblio – ci racconta Stefano Ricci –. Oblio come dimenticanza di quello che si sarebbe potuto essere, di come l’affaccio alla vita si trovi costretto a strade altre rispetto a un sé primigenio. Per questo abbiamo scelto di partire, visto che lavoreremo con due gruppi di giovani attori, da due testi che parlano delle giovinezza, del suo sbocciare alla vita, quello di Wedekind, e di come invece questo processo, queste energie vengano sporcati, stravolti, corrotti dal potere e dalle sue derive, così ben stigmatizzati nel testo di Shakespeare».
La vostra residenza si è focalizzata soprattutto sulla scrittura drammaturgica, visto che avete lavorato solo con due performer, il francese Piersten Leirom e Liliana Laera e con l’elaborazione musicale di Stephane Pisani. Come avete “usato” i due testi?
Paradossalmente quello che più direttamente mette in scena i giovani le loro paure e i loro drammi, “Risveglio di primavera” ci è servito solo come spunto per un’elaborazione del tutto originale, invece nel caso del “Troilo e Cressida” abbiamo mantenuto ruoli, personaggi e alcune delle sue molte vicende. Di qui la necessità di un confronto con i due performer, giovani loro pure e quindi un confronto generazionale, per valutare la portata drammaturgica e teatrale di parole e di un linguaggio che affonda nella classicità.
Nei vostri spettacoli l’approccio critico alla realtà, alla società contemporanea è molto forte, puntuale e provocatorio. Quale “di più” critico aggiungete in questo lavoro sui e con i giovani, oggi le vere vittime di un sistema che ha cancellato dal suo orizzonte il futuro, imploso come è in un presente usa e getta?
Più che continuare a esporre il potere devastante che regola la nostra società ormai senza bussola alcuna, ci interessava mostrare i meccanismi con i quali i giovani vengono ingabbiati, sottosfruttati rispetto al loro potenziale maggiore che è quello per il cambiamento. In particolare in questo momento, in cui tutto è molto costipato, imborghesito e anche il teatro – il nostro in particolare –, appare agonizzante teso alla formalizzazione corretta e digeribile, vogliamo opporre a tutto questo l’energia di una gioventù non ancora corrotta, la purezza di una generazione che si affaccia alla vita e al mondo dell’arte. Questo ci pare l’aspetto più dirompente.
Come dire che c’è ancora speranza?
La speranza è sempre motivo principale e ostinato dei nostri lavori, dove, nonostante l’acredine, la disillusione che spesso ci assale e ci prova, c’è sempre un’energia vitale fortissima che trascende tutto e che ci fa andare avanti, anche controcorrente.
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