Revelli, l’alpino che diceva: «Ricordati di non dimenticare»

Sopravvissuto a nikolajewka, partigiano della brigata rosselli, intellettuale illuminato  



Chiesero una volta a Nuto (Benvenuto) Revelli se fosse scrittore o professore. La risposta secca e precisa: «Geometra, io sono geometra». Invece, nel ripercorre la vita di quest’uomo che ha saputo raccontare gli orrori della guerra con sguardo innocente e severo, nell’anno centenario della sua nascita, è meglio pensare Revelli come “alpino” con le virtù, non imbalsamate della retorica, che questa parola significa. Cosí come scrive Giuseppe Mendocino autore di una biografia.

Nato a Cuneo nel 1919 Revelli a venti anni nell’accademia militare di Modena dopo due anni ne uscì con il grado di sottotenente. Nel 1942 partì volontario per il fronte russo con la divisione Tridentina inquadrato nel battaglione Tirano del 5° reggimento alpini. Ferito al braccio nel 1942 si guadagnò la prima medaglia d’argento e la promozione a tenente. Tornato al fronte visse la ritirata di Russia a Belgorod partecipando alla battaglia di Nikolajewka. Quei fatti sono raccontati nei suoi volumi: “La Strada del Davai (ritorno)”, “L’ultimo fronte”, “La guerra dei poveri”. L’esperienza aiutò questo giovane piemontese a capire un’inutile tragedia di cui erano stati vittime poveri contadini, male armati, male guidati «poveri cristi – scrisse Revelli – gettati allo sbaraglio, beffati e traditi: nello sfacelo immane di un esercito e poi di uno Stato, riscoprono in sé le ragioni profonde della dignità del vivere». Come riconobbero i russi, sfondata la sacca di Nikolajewka, «il corpo degli alpini, unica forza militare straniera, era uscita invitta dal territorio sovietico». Per Revelli, tormento doloroso di tutta la vita, l’aver dovuto lasciare abbandonati nelle retrovie, i feriti e il suo attendente che lo supplicava: “Tenente si ricorda? abbiamo combattuto tanti anni insieme”. Questa conquistata consapevolezza di una guerra che su tutti i fronti, Albania, Grecia, Nord Africa, Russia condotta in disperata sottovalutazione delle disponibilità di armi e di mezzi, di navi, di aerei, aiutò Revelli, tornato in Italia, a salire in montagna con i partigiani, comandante della Brigata Stura “Carlo Rosselli”. Subì gravi ferite al volto, si conquistò una seconda medaglia d’argento. Compose sulle orme della canzone alpina “Il ponte di Perati” le parole per “pietà l’è morta” che canta: » Combatte il partigiano/sua dura battaglia/tedeschi e fascisti/ fuori d’Italia». Commerciante con una piccola azienda di lamiere, prese a girare le campagne del cuneense, con un magnetofono alla ricerca di testimonianze, dapprima dei sopravvissuti alla guerra, poi di emigranti, di contadini poveri, di donne alle quali la campagna sulle soglie della industrializzazione deve la propria sopravvivenza. Un lavoro immane. Pieno di rabbia, in un’intervista a Corrado Stajano del 18 luglio 1972 sul Giorno di Milano chiariva: «Il paese hanno voluto ricostruirlo su fondamenta fasciste. I responsabili del disastro bellico sono tornati a comandare. Villaggi morti, piani verdi che aiutano solo i ricchi, cantine sociali che falliscono. Promesse fatte con la coscienza di non mantenerle. Tutto corrisponde alle divisioni mandate a morire in Grecia, in Russia. Lo stesso segno di ignoranza, di sopraffazione, di cinismo». Revelli dalla brutalità fascista e dai valori della Resistenza aveva maturato profondo rispetto verso gli uomini. Il suo capolavoro rimane il volume “Il disperso di Marburg” (tutti i volumi sono editi da Einaudi) appassionata ricerca che Revelli compie negli archivi italiani e tedeschi per conoscere il nome di un ufficiale ucciso da giovani partigiani mentre come ogni mattina usciva a cavallo dalla caserma. Anni di testarda indagine per scoprire (merito dei tedeschi che con burocratica ossessione conservano dati di tutti i caduti) che il cavaliere si chiamava Rudolf Knaut, aveva un fratello disperso in Russia, non aveva mai militato nella Gioventù hitleriana, era un uomo mite vittima di follie belliche. Aveva 24 anni, dietro la divisa un giovane pieno di umane virtù. Un tedesco buono? Domanda inquietante. Revelli amava il Friuli anche per lo stato di abbandono delle sue montagne. Un alpino che ammoniva sempre: «Ricordati di non dimenticare». –

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