Regista e collezionista: Gemona celebra l’opera di Gianni Da Campo
In mostra al Castello il Fondo della Cineteca del Friuli. Autore di pochi film realizzati con pochi soldi ma intensi

«L’opera si impone per il pudore e la sincerità che l’animano: un piccolo film che ne vale molti di quelli grossi”. Così si concludeva la recensione di Tullio Kezich su “Pagine chiuse”, regia d’esordio del veneziano Gianni Da Campo (1943-2014), timido e insieme bruciante ritratto in un collegio religioso di un ragazzo che si isola nei fumetti. Autore di pochissimi film (tre lungometraggi e un corto tra il 1966 e il 1986) – fatti con pochi soldi ma intensi e personalissimi, più volte presentati alla Mostra di Venezia - Da Campo lavorava su un’autoanalisi spietata, che esprimeva l’universalità del dolore provocato dal desiderio. E Kezich negli anni ’60 se ne intendeva di esordi, perché aveva prodotto “Il posto” di Olmi e “I basilischi” della Wertmüller, e aveva riconosciuto un originale talento in “Pagine chiuse”, film per lui apparso a sorpresa “come un messaggio in una bottiglia” (anche se quel debutto era dedicato da Da Campo a un altro grande irregolare dell’epoca a cui si sentiva affine, Valerio Zurlini, che aveva supervisionato il film).
La complessa e affascinante personalità di Da Campo (oltre che regista, anche scrittore, collezionista di fumetti e manifesti cinematografici), verrà ora celebrata al Castello di Gemona da una mostra segnata da seducenti tavole e locandine, “L’età dell’amore. Collezione Gianni Da Campo: una storia intima del cinema e del fumetto italiano”.
Aperta da giovedì 31 luglio (inaugurazione alle 11) e poi nei fine settimana fino al 29 marzo 2026, realizzata con i materiali del fondo Da Campo affidati alla Cineteca del Friuli, rappresenta - come ricorda l’assessore alla cultura del Comune di Gemona Flavia Virilli - il terzo appuntamento (dopo quelli dedicati a JFK e a Elio Ciol) del progetto triennale del Comune insieme alla Cineteca, sostenuto dalla Regione Fvg. La mostra sarà affiancata da ottobre da una rassegna che includerà, oltre ai tre lungometraggi di Da Campo – “Pagine chiuse”, “La ragazza di passaggio”, “Il sapore del grano” – e il corto “I parenti”, diversi suoi film prediletti di De Sica, De Santis, Genina e naturalmente Zurlini.
Curatore naturale di questo evento è Sergio M. Grmek Germani, critico fra i più autorevoli in Italia e soprattutto più sensibili da sempre verso le figure più appartate o ingiustamente misconosciute del nostro cinema, e che già al suo festival I Milleocchi aveva dedicato nel 2013 a Da Campo un devoto omaggio. Nei testi della mostra Germani si sofferma sulle maggiori passioni dell’intellettuale veneziano, sottolineando di esse le segrete interconnessioni.
Se nelle storie per lo schermo Da Campo guardava come detto a Zurlini e al suo cinema “adriatico”, fatto di malinconie marine e amori illusori per fuggitive “ragazze con la valigia”, in letteratura aveva invece sviluppato un’attrazione per la narrativa noir e la figura di Georges Simenon, di cui era diventato corrispondente e grande specialista, curando anche la versione italiana della biografia. Ma soprattutto, Germani approfondisce il vero e proprio culto che Da Campo aveva coltivato per Marina Vlady, attrice francese molto attiva in Italia, ricostruendo il legame fra fumetto e cinema che si era formato nella sua immaginazione di adolescente, relativamente a un ideale femminile.
«Le difficili vicende di una famiglia divisa, la scoperta di pulsioni sentimentali e sessuali fuori dalle regole” (Germani), attraggono Da Campo verso affascinanti figure di donne dello schermo, che lui avvicina a protagoniste di fumetti. Vista per la prima volta giovanissima in “L’età dell’amore” (1953) di Lionello De Felice, Vlady diventa per Da Campo l’incarnazione di un suo mito del fumetto, la Pantera Bionda, e insieme la passione di una vita.
Marina sarà infine attrice per Gianni ne “Il sapore del grano” (1986), seppure in un ruolo secondario e invecchiato. Sarà invece solo attrice mancata ne “La ragazza di passaggio” (1970), dove la ribelle protagonista si chiama Marina. Proprio per tale presenza-assenza, questo che è uno dei più bei film su Venezia, diventa per Germani anche “uno dei grandi film sull’impossibilità che l’amore trovi un centro».
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