L’archeologo Peyronel a Aquileia Film Festival: «Studiamo il passato per un futuro di pace»
Il docente universitario sarà ospite della rassegna il 30 luglio alle 21. «Parleremo di vicino Oriente e Mesopotamia»

Luca Peyronel è l’ospite atteso il 30 luglio all’Aquileia Film Festival. Alle 21, ad aprire la seconda serata del festival il documentario britannico “Il mondo perduto dei giardini pensili” (regia di Duncan Bulling). Una guida tra le rovine di Ninive, in un’area devastata dall’Isis, dove l’archeologia diventa fondamentale per il recupero della memoria. Ospite della serata l’archeologo Luca Peyronel, docente di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente all’Università degli Studi di Milano e direttore di importanti missioni archeologiche in Iraq e in Turchia. Le sue esperienze sul campo nella Piana di Erbil e a Kültepe offriranno un’affascinante finestra sulle civiltà antiche dell’Asia occidentale. A Peyronel, anche consulente scientifico per i documenti archeologici di Rai cultura, il compito di introdurci alla serata.
«L’incontro che terremo ad Aquileia è sul vicino Oriente e la Mesopotamia e si collega al film che ci precede. Dopo di noi ci sarà un altro incontro che riguarda la costa del levante del Libano e gli scavi della città fenicia di Biblo. Attualmente (lunedì 28, per chi legge) mi trovo nella provincia di Kayseri, in Turchia, nella parte centrale dell’Anatolia. Il progetto archeologico italiano è a Kültepe, “la collina di cenere” che in antico si chiamava Kaneš. È un sito importantissimo del terzo e secondo millennio A. C. Qui è stata scoperta una sorta di colonia di mercanti che venivano dalla Siria e che vi svolgevano le proprie attività commerciali testimoniate dal ritrovamento di oltre ventitremila tavolette cuneiformi. Un sito, per chi si occupa di economia antica e di rapporti tra culture diverse, che è una sorta di paradiso».
Lei è capo della missione. Da quanto tempo siete lì?
«Abbiamo iniziato il progetto archeologico italiano dell’Università Statale di Milano nel 2019. Siamo riusciti a venire anche nel 2020 con una situazione critica (Covid). Ogni anno ritorniamo e svolgiamo la nostra attività per un mese e mezzo, due mesi, insieme alla missione turca che è composta da ricercatori e studenti di varie università, soprattutto quella di Ankara che è la nostra partner per questo progetto».
Un archeologo che scopre insieme alla sua squadra tesori sepolti da millenni ha un ruolo importantissimo per la civiltà dei popoli. Oggi però, più che mai ci sembra che il vostro ruolo sia portare anche un segno di pace.
«È assolutamente così. Ho iniziato il mio lavoro sul campo, in Siria, quando ero studente a Roma, alla Sapienza. In Siria ho lavorato fino al 2010, all’inizio della crisi e della guerra. Ho visto tutto il passaggio della crisi che ha attraversato il vicino Oriente. L’altra missione che dirigo nella piana di Erbil, nella zona che è stata durante il periodo dell’Isis la frontiera che ne contrastava l’avanzata, l’abbiamo cominciata nel 2016. Abbiamo vissuto l’attacco di Mosul. Abbiamo visto da vicino l’impatto sul patrimonio delle guerre, dei conflitti. Il nostro ruolo è esattamente il contrario: far capire che lo studio del passato senza preconcetti, senza ideologie, né fanatismi è la chiave perché le comunità locali e quella internazionale possano andare verso un futuro sempre più di condivisione e di pace. Sì ricostruiamo il passato ma abbiamo anche un ruolo attivo di quella che noi chiamiamo “archeologia pubblica”, far capire perché studiare il passato ha senso nel contesto contemporaneo, soprattutto nei luoghi devastati dal fondamentalismo o dagli scavi clandestini, con danni enormi per il patrimonio».
Quale sarà il futuro dell’archeologia in Medio Oriente?
«Non sarà più fare l’archeologia che hanno fatto i nostri maestri, ovvero attenta ai luoghi ma senza il compito di ricucire il tessuto lacerato, violentato come quello che noi abbiamo davanti. È necessario capire cosa è successo. Il nostro lavoro è da un lato fare ricerca e testimoniarne l’importanza ma nello stesso tempo porci rispetto al patrimonio culturale con una attenzione diversa in rapporto alle comunità locali che devono percepire che la strada deve essere differente da quella del conflitto».
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