Quella saracinesca abbassata, il secondo racconto in finale per il premio Scerbanenco

Tutte le mattine alla stessa ora Romano alzava la saracinesca del suo negozio con movimenti lenti, ma decisi, come avesse un’unica missione nella vita: quella di aprire puntuale la sua bottega di calzolaio. Prima di entrare, guardava verso l’alto e mi rivolgeva un cenno dandomi il buongiorno. Sapeva che lo attendevo per ricambiare il saluto, alzando la prima tazza di caffè.
Romano, aveva risuolato le scarpe di tutta la mia famiglia, era un uomo di sessantaquattro anni che ispirava fiducia; quand’ero piccolo, e mia madre troppo indaffarata con i turni di lavoro, qualche volta mi portava da lui per un paio d’ore: «Così magari impari qualcosa di utile» mi diceva alludendo alla mia poca voglia di studiare.
Lui accettava sempre volentieri, mi lasciava pasticciare con la colla Artiglio su delle suole di para, seduto di fronte a un poster con una spiaggia esotica e un’amaca appesa tra due palme, dove un giorno sognava di trasferirsi.
A distanza di anni lo stesso poster un po’ sbiadito è ancora là appeso, come il sogno di Romano che nel frattempo ha visto passare tutte le mie scarpe, quelle di quand’ero bambino, poi ragazzo, fino a quelle d’ordinanza che porto oggi, le scarpe da “piedipiatti” come le chiama lui.
Questa mattina però Romano non ha alzato la saracinesca e la mia tazza di caffè non ha lo stesso sapore di sempre.
Potevo andarmene dritto in Questura, ma quella saracinesca abbassata disturbava la mia routine mattutina, perciò scesi in strada e andai a vedere. Notai che la saracinesca non era ben chiusa, come se non fosse stata tirata giù del tutto.
Guardai l’orologio, dovevo sbrigarmi se non volevo far tardi, in fondo non erano fatti miei se il ciabattino quella mattina aveva deciso di non aprire bottega. Indugiai ancora qualche secondo, poi con la punta della scarpa cercai di sollevare ancora un po’ la saracinesca e quella in tutta risposta risalì sferragliando di un altro buon mezzo metro, così sbirciai dentro e con un colpo di reni l’alzai del tutto. il taglio di luce che entrò, invase l’ambiente saturo di quell’odore di scarpe vecchie che hanno camminato tanto, misto a colla e gomma.
La porta era aperta e a terra sparsi un po’ ovunque c’erano attrezzi, scarpe spaiate, chiodi e tacchi di gomma buttati alla rinfusa, sembrava fosse passato un tornado a rovesciare tutto quello che si trovava sugli scaffali. Pensai a una rapina e buttai un occhio verso la cassa, ma il cassetto era ben chiuso.
Feci qualche passo verso il retrobottega in punta di piedi per non calpestare niente, estrassi la pistola per abitudine più che per prudenza, scostai la tenda di pelle e procedetti nella penombra.
Un rumore d’acqua corrente mi mise in allarme, abbassai lo sguardo, le suole delle mie scarpe erano finite in una pozzanghera. La piccola vasca della stanza da bagno rigurgitava fiotti d’acqua, cercai il rubinetto per chiudere il flusso, ma la mia mano sbatté contro qualcosa di rigido.
Il corpo di Romano era riverso sul bordo della vasca a faccia in giù, con le braccia abbandonate e la testa affondata nell’acqua. In quella vasca l’avevo aiutato qualche volta a trattare i pellami per le scarpe su misura dei clienti più esigenti.
Non toccai nulla per non sentirmi rimproverare dagli uomini della Scientifica. Salutai Romano per l’ultima volta e annotai mentalmente alcune osservazioni: nessun segno di scasso, nessun tentativo di rapina, negozio a soqquadro, titolare annegato non accidentalmente. Povero Romano, che tragico epilogo per un uomo che sognava di andarsene in pensione alle Maldive.
Feci le telefonate di rito e poi avvisai mia moglie, non poteva credere che un fatto così violento fosse accaduto proprio a lui. A volte aveva fatto da babysitter anche alla nostra piccolina finché Anna andava a prendere a scuola l’altro bambino, come mia madre aveva fatto con me. Elisa si sedeva sullo stesso sgabellino dove mi ero seduto io e giocava con la colla e gli scarti di pelle.
Quando tornava a casa ci mostrava orgogliosa le sue creazioni impreziosite da un laccio rotto o una borchia di ottone. Aveva iniziato una specie di collezione su una mensola della cameretta, intervallata da alcuni tacchi di scarpe da donna. Romano le aveva insegnato i diversi tipi: tacco a spillo, tacco medio, mezzo tacco, ma il suo preferito era il tacco a rocchetto, le stava davvero simpatico, specie per il nome anche se faticava a pronunciarlo con la sua erre moscia.
L’autopsia rilevò acqua nei polmoni e delle ecchimosi sul collo, segno che lo avevano tenuto stretto e immerso forse più volte nell’acqua fino ad affogarlo, altri evidenti ematomi sul volto, oltre alle dita della mano destra spezzate.
Sembrava un regolamento di conti bello e buono, ma perché farsi torturare in quel modo fino a lasciarsi morire. Cosa volevano sapere da lui di così importante?
Continuo a sfogliare il suo registro clienti trovato in un cassetto per cercare risposte, ho riletto decine di volte i nomi trascritti in quei fogli, ma nessuno ha suscitato in me sospetti, la maggior parte è gente del quartiere che conosco di vista.
Lo tengo arrotolato in tasca come se il suo contatto potesse trasmettermi un’idea o anche solo una vaga intuizione. Fu proprio il quaderno di Romano ad aiutarmi con Elisa e affrontare il triste argomento, quando lo vide appoggiato sulla mia scrivania.
«Perché hai il quaderno di Romano? » mi chiese mangiandosi un po’la prima lettera del nome del calzolaio. Non inventai bugie, la presi in braccio e cercai le parole più adatte a una bambina di 7 anni.
«È successa una cosa molto brutta, purtroppo non rivedremo più il nostro amico. »
«È morto?» domandò d’un fiato con espressione seria. Annuii in silenzio e la strinsi fra le braccia.
«Lasciami, mi soffochi. » Sgattaiolò via nella sua stanza e poco dopo tornò da me con in mano i tacchi della sua collezione.
«Questi allora li posso tenere per sempre? »
«Credo di sì, perché me lo domandi? Non te li aveva regalati Romano? »
Tornò a sedersi sulle mie gambe e nascose gli occhi nell’incavo del mio braccio.
«Su, avanti non piangere. » poi sottovoce mi disse in un orecchio che i tacchi a rocchetto gliel’aveva dati solo da nascondere.
«Questi Romano diceva che erano i più preziosi, perché suonano, senti. »
Elisa ne prese uno e con la manina lo agitò provocando uno strano suono simile a dei sassolini che si sfregano tra di loro. Rimasi sorpreso e le dissi di farlo di nuovo.
Non riuscivo a capire l’origine di quel suono, presi il tacco in mano e l’osservai meglio, tra la pelle e il fondo di gomma si poteva scorgere una membrana sottile.
«Romano non ti ha detto cosa c’era dentro? »
«No, ma non dovevo dirlo a nessuno. »
«E perché non dovevi dirlo a nessuno? »
«Perché era un segreto. Quand’ero da lui, ogni tanto veniva una signora con un bel vestito blu, si toglieva le scarpe e le dava a Romano. »
«E Romano cosa faceva? »
«Lui prendeva delle altre scarpe con dei tacchi come questo e prima di dargliele le faceva suonare agitandole in aria, come quelle cose che mi ha regalato la nonna per carnevale. »
«Le maracas? E poi cosa succedeva? »
«La signora prendeva le scarpe e se le metteva. »
«Senza dire niente? »
«No, ma prima di andare via lei gli dava un bacio e un sacchetto di carta. »
Presi un piccolo cacciavite e inserii la punta nella fessura del tacco, la ruotai leggermente e la membrana si staccò e sul tavolo rotolarono fuori delle piccole pietruzze. Non ero un esperto, ma avevano tutta l’aria di undici diamanti grezzi da circa un carato l’uno.
«Cosa sono papà? Sassolini? »
«No, tesoro, molto di più. » Era questo dunque il segreto di Romano, un traffico di diamanti grezzi.
«Ora devo andare, ma le pietruzze le porto con me, tu adesso fai la brava e vai a giocare con qualcos’altro. »
Elisa se ne andò nella sua stanza imbronciata e tirando su col naso.
Negli altri tacchi furono trovati quaranta diamanti lavorati, di diverse carature per un valore di circa seicentomila euro. Tornai nella bottega del calzolaio per perquisirla da cima a fondo, ma non trovai altro del genere. Stavo fissando quel vecchio poster dietro al bancone quando sentii suonare il
cicalino della porta e vidi entrare una donna con un elegante vestito blu. Il suo volto mi sembrava vagamente familiare e anche lei in qualche modo rimase sorpresa nel vedermi.
«Dov’è Romano? »
La mia memoria fotografica rapidamente fece riaffiorare la scheda segnaletica di Svetlana Ambrus, badante moldava accusata di circonvenzione d’incapace, incontrata nei corridoi del Commissariato. Cercò di scappare, ma le afferrai i polsi e glieli legai dietro alla schiena con dei lacci da scarponi.
«Mi dispiace tesoro, ma i tacchi a rocchetto non sono più di moda per quest’anno. Ti dichiaro in arresto per contrabbando di diamanti. »
Non fu facile strapparle i nomi dei suoi soci in affari, ma quando seppe com’era stato ucciso Romano, la donna dal vestito blu li denunciò tutti. Romano era diventato il suo amante ed era stato coinvolto in questo traffico di diamanti grezzi, poi aveva iniziato a tagliarli da solo, pareva avesse un talento innato per quel lavoro, la sua precisione e velocità d’esecuzione lo fece diventare tra i migliori tagliatori della malavita e nel giro di pochi mesi gli ordini dei diamanti finiti aumentarono per poi rivenderli a clienti anche oltre confine.
Un business da dieci milioni di euro l’anno, di cui Romano riceveva una fetta irrisoria. Ma aveva un sogno da realizzare, ritirarsi su quell’isola con lei, perciò decise di aumentare i suoi guadagni d’accordo con la bella signora. Iniziò a trattenere un paio di diamanti a giro, di cui si spartivano i proventi delle vendite.
Avrebbero smesso una volta raccolta la somma sufficiente per vivere di rendita in un’isola lontana, all’ombra di una palma. Il giochetto però non durò a lungo e quando la banda scoprì che il ciabattino li stava derubando, fecero una spedizione punitiva senza tener conto che Romano era innamorato del loro corriere, ma si fidava di più una bambina di 7 anni che custodiva per lui quei tacchi preziosi, ancor più preziosi della sua stessa vita. —
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