“Quel posto che chiami casa”: il nuovo libro di Enrico Galiano è un viaggio dal dolore alla luce
La prima presentazione dell’opera mercoledì 14 maggio a Porcia. «L’ho scritto quando la mancanza di mio fratello era ancora una ferita aperta»

Dolore e tenerezza, adolescenza e memoria, la vertigine del diventare sé stessi e la paura di farlo davvero: c’è tutto questo in “Quel posto che chiami casa” (Garzanti), il nuovo libro di Enrico Galiano. La protagonista è Vera, una ragazza con una voce nella testa: quella di suo fratello Ce, morto quando lei era bambina, ma mai davvero scomparso. Un compagno invisibile, un giudice interiore, ma anche una scintilla di verità.
La sua ombra e il suo rifugio. È un libro sulla perdita ma anche sulla ricerca: di senso, di identità, di libertà. Di un luogo – fisico o simbolico – che possiamo finalmente chiamare casa. Mercoledì 14 maggio, a Porcia, a villa Correr Dolfin, la prima presentazione nazionale, alle 18, con la libreria Baobab, poi il 17 maggio al Salone del libro di Torino, e ancora, a Nordest , il 28 a Oderzo e il 1° giugno a Rovigo. Ne parliamo con l’autore, scrittore e professore amatissimo, capace di raccontare il mondo degli adolescenti e quello, altrettanto fragile, degli adulti che li osservano, spesso senza comprenderli davvero.
Questo romanzo nasce da una perdita importante, quella di suo fratello. Una ferita da cui è scaturita una storia potente e luminosa. Si avverte un’urgenza diversa, quasi una densità nuova, rispetto ai suoi libri precedenti.
«L’ho scritto nei giorni in cui quella mancanza era ancora una ferita aperta, e la scrittura è diventata il mio modo per tenerne viva la voce, per continuare a sentirlo accanto. E ha trasformato il dolore in luce. È la storia di una ragazza alla ricerca del fratello, ma diventa la storia di tutti noi, quando cerchiamo quella parte autentica di noi stessi».
La voce di Cè, per Vera, è un rifugio ma anche un peso. Le è mai capitato, davvero, di sentire la voce di qualcuno che non c’era più? Quanto c’è di suo in quella voce che non tace mai?
«Sì, mi è successo. E credo davvero che ci siano legami così forti da resistere persino alla morte. Nel libro, la voce di Cè è questo: una presenza che consola e insieme è scomoda. È la voce interiore che tutti abbiamo, quella che ci spinge verso le scelte più vere, più coraggiose. In questo senso, Cè è anche la mia voce».
I suoi libri parlano spesso di adolescenti in bilico, fra attese e paure, fra il bisogno di appartenere e quello di distinguersi. In Vera c’è anche la fatica di crescere nell’ombra di qualcuno che “era perfetto”.
«Credo che, come dice Vera, oggi la “malattia della perfezione” sia una cosa reale. Lo vedo ogni giorno in classe negli occhi dei ragazzi, nei loro silenzi, nelle loro ansie».
C’è anche un altro tema fortissimo: quello della solitudine. Vera non è “sola” in senso stretto, ma si sente diversa.
«I ragazzi si sentono schiacciati da un imperativo continuo alla performance, al risultato, ai numeri. C’è una tirannia invisibile ma fortissima, quella dell’apparire, dell’eccellere, del non sbagliare mai».
A un certo punto Vera lascia tutto e sceglie una nuova strada. Quanto è difficile, per i ragazzi, trovare la propria direzione?
«Oggi c’è una parola che gira, nata nel mondo anglosassone: Fobo. È l’acronimo di Fear of Better Options, la paura legata all’eccesso di scelta. Una paralisi che arriva quando hai davanti troppe strade e finisci per non sceglierne nessuna. È uno dei grandi disagi dei ragazzi di oggi: una sorta di bulimia dei mezzi, ma un’atrofia dei fini. Non è vero che i ragazzi non hanno voglia di scegliere, spesso non viene data loro la libertà vera di farlo. E allora mollare tutto, come fa Vera, non è un gesto di resa, ma il primo vero atto di coraggio».
Nei giorni scorsi ha postato sui suoi social la lettera di una studentessa che si sente dimenticata dalla scuola. Qual è lo di salute delle nostre scuole? E che cosa si ostina a vedere lei, invece, nonostante tutto?
«Quella lettera non è un’eccezione. Me ne arrivano tante. E tutti i ragazzi dicono la stessa cosa: “Accendeteci, non spegneteci”. Ma spesso si trovano prigionieri di una scuola che chiede solo prestazioni, voti, verifiche e dimentica la cosa più importante: la gioia. Però io continuo a vedere anche un’altra scuola. Quella fatta di insegnanti che ogni giorno provano a tenere viva quella scintilla».
Lei è amatissimo dai ragazzi: la leggono, la ascoltano, si fidano. Come si spiega questo legame così profondo? E cosa sente di dover restituire, a chi le affida le proprie emozioni?
«È facile, per un adulto, trincerarsi dietro un ruolo. Più difficile – ma anche più vero – è ammettere che siamo fragili anche noi. Forse è da lì che nasce quel legame: dal riconoscersi, al di là dei ruoli. E quello che sento di dover restituire è questo: uno specchio pulito. In cui possano guardarsi e pensare “non sono solo”». —
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto