Quando in Carnia si nasceva nelle stalle e negli stavoli

“Comari”, “santule”, levatrice, ostetrica. Nell’uso dei nomi c’è già una storia, un’evoluzione dall’assistenza domestica a quella ospedaliera, una trasformazione della figura che presiede il parto, momento che è mistero, sangue, contatto diretto con la vita, ma anche con la morte, transizione, passaggio, taglio, inizio.
Barbara Vuano, partendo dalla tesi di laurea in Antropologia culturale con relatore il professor Gian Paolo Gri, pubblica un libro-inchiesta, che è anche ricostruzione storica e riflessione attorno alle simbologie dei gesti e riti della tradizione, partendo dagli studi di Nicoloso Ciceri e Ostermann. Nascere nella cenere (Forum Editrice) rimanda alla “cinise” sterile su cui poteva avvenire il parto, in una stalla o in stavoli sperduti. Il libro è stato recentemente presentato a Palazzo Antonini a Udine, dall’autrice con Donatella Cozzi, Patrizia Quattrocchi e Fabiana Fusco.
Le interviste, raccolte nel 2005-2006 a 5 ostetriche e 5 partorienti in casa, narrano vicende avvenute tra il ‘42 e il ‘79 nei comuni carnici, dove più sopravvive la tradizione: Rigolato, Comeglians, Ovaro, Lauco, Socchieve e Sutrio.
Scopriamo che il parto in Carnia, normalmente in casa fino al ‘62 (prima della sovvenzione per l’assistenza ospedaliera), non era un fatto privato ma della collettività. Varie le presenze femminili solidali oltre la levatrice, che procedeva con la bollitura degli strumenti e l’olio di ricino per intensificare le contrazioni. Per le partorienti c’era il “mangiâ speciâl”, “roba cjara”, “las spremudas” o la gallina “cu las plumas neras”, e poi 40 giorni di isolamento fino alla benedizione del prete. I rituali di seppellimento della placenta spettavano al marito. Se il bimbo nasceva con la camicia, avvolto nel sacco amniotico, poteva essere un benandante.
Stretta la corrispondenza tra il corpo della donna e quello del nascituro: le collane usate in gestazione potevano far soffocare il bimbo dal cordone ombelicale nell’atto della nascita, i desideri potevano trasformarsi in voglie, macchie perenni sul figlio. C’erano i santi a cui votarsi per avere prole o, viceversa, l’unico contraccettivo, l’emigrazione per lavoro del marito. E i precetti magici per preservare la donna incinta: non giurare per non avere un figlio bugiardo e guai farsi toccare da altre donne o uccidere animali.
Tra le pagine troviamo la levatrice che introduce la novità di far partorire in cucina portandovi la rete del letto, perché le camere non erano riscaldate, o l’ostetrica dell’ospedale di Tolmezzo che racconta come il parto da evento fisiologico sia diventato patologico, ossessivamente monitorato.
E la sorpresa delle sorprese: la levatrice che comunica alla donna appena sgravata che «ce n’era un altro, lei l’aveva capito subito, non gliel’aveva detto per non agitarla».
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