Quando il pittore è anche un tennista Gli esempi di Caravaggio e Tiepolo

Cultura e sport, nel distratto intendere comune, spesso sono considerati in antitesi. Vero, solo se non si esce dal banale. Falso, per i soggetti che fin dalla notte dei tempi costituiscono le punte di diamante traccianti l’evoluzione della specie. Uno per tutti: Aristocle era il nome di battesimo, ma è annoverato fra i sommi, con l’appellativo di Platone, impostogli dal suo preparatore atletico, perché aveva spalle larghe come un armadio. Uomo di pensiero e nel contempo atleta olimpionico, specialità pancrazio. Un misto di boxe e di lotta.
Dall’astratto mondo delle idee, alla concretezza del mondo fenomenico. Seguendo questa linea e con un salto di duemila anni, ci troviamo ad assistere a un connubio storico, di pittore-tennista. Drammatico. Ci scappa il morto! Protagonista Caravaggio. Il 28 luglio 1560, due giocatori scendono in campo a Roma, nel club di via della Pallacorda (esiste ancora la via). Il pittore, molto genio e molta sregolatezza, per una disputa su pallina fuori / pallina dentro, uccide l’avversario con la spada e si dà alla fuga. Papa Paolo V lo condanna a morte per decapitazione, in contumacia. Caravaggio resta transfuga per quattro anni. Vaga di città in città e si sposta man mano che sente odor di Santo Uffizio. Dove si trova, dipinge. Ossessionato dal terrore d’essere decapitato, in quasi tutte le opere che produce in questo periodo, pone in evidenza teste mozzate che riportano il suo viso.
Poi, arriva il 18 luglio 1610. Giorno della sua morte. Un giallo carico di misteri, sui quali si fanno solo ipotesi. Per intercessione dei potenti Colonna ottiene promessa di grazia. A Napoli s’imbarca su una feluca di linea, diretta ai porti che fanno capo a Roma. Porta con sé tre preziosi dipinti, da donare al Papa. E qui finisce la vita terrena di Caravaggio. Viene trovato malmenato e morente, riverso sulla sabbia di una spiaggia maremmana, a quaranta chilometri da Roma. Sparita la feluca, spariti i tre preziosi quadri. Scompare anche lui, aveva trentanove anni. Si parla di assassinio allo scopo programmato di rubare i preziosi quadri. Le tre tele riappaiono poi, in possesso di vari importanti personaggi.
Passa un secolo e arriviamo, con Tiepolo, a un’altra combinazione di pittura e tennis. Per inciso, l’artista opera a Udine dal 1726 al 1729 su committenze del Patriarca di Aquileia, lasciando in città, molti capolavori. In tarda età si trasferisce in Spagna dove riceve la richiesta, da parte del conte di Shaumburg-Lippe, di dipingere un’allegoria che celebri la morte del suo compagno di vita. Tiepolo, in analogia con l’amore del Conte, porta in immagini i contenuti di una favola di Ovidio, dove Apollo piange la morte del suo amato Giacinto, bellissimo giovinetto. Così, come il Principe può piangere ora, la perdita del suo compagno di vita. E Tiepolo, nel punto dove i pittori di solito pongono la firma, dipinge una racchetta da tennis completa d’incordatura e di palline attorno, poco sotto al corpo ignudo di Giacinto. Uno stridente anacronismo in un dipinto del ‘700. Un vezzo, comunque, con il quale Tiepolo ha voluto fissare per sempre, la figura dell’uomo amato dal Conte che era stato un appassionato tennista. —
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto