Poesia e visioni: l’eredità di Federico Tavan

Creò composizioni in italiano e in friulano nella variante di Andreis: morì nel sonno nella sua abitazione di Andreis dieci anni fa

Danilo De Marco
Federico Tavan durante una trasferta a Parigi e, a destra, il poeta assieme a Marzio Breda (foto De Marco)
Federico Tavan durante una trasferta a Parigi e, a destra, il poeta assieme a Marzio Breda (foto De Marco)

UDINE. Tavan è stato sicuramente e visceralmente il più pasoliniano dei poeti italiani, e come Pasolini, poeta anche in lingua friulana, nella variante di Andreis. Quella lingua “debole” il friulano, come la chiamava Pierluigi Cappello che «non avendo la possibilità numerica di tutti i vocaboli della lingua italiana, diventa lingua attaccata alle cose, tanto che si salda addosso alle cose».

Dire di Federico cercando con timore di disvelare almeno uno dei tanti Federico, delle sue innumerevoli “facce”, con cui sorprendendoci sempre si presentava, è cosa complessa. Questo non certo per furbizia o per qualche tornaconto. Prudenza e doppiezza, cosa che troppe volte ritroviamo anche nei grandi umanisti, erano modi di fare a lui sconosciuti. Federico mutava di stato d’animo non appena si scatenavano in lui gli inappagati desideri che lo trascinavano nella sua Nave Spaziale. E come il camaleonte, totalmente esposto e vulnerabile, mutava. Mutava per non essere divorato dal mondo esterno.

L’abbraccio con Erri De Luca
L’abbraccio con Erri De Luca

Ora, a dieci anni dall’inizio del suo definitivo viaggio, la sua contagiosa e silenziosa assenza, sicuramente per chi gli era più vicino, ma non solo, si è trasformata in un frastuono. In un silenzio troppo rumoroso. Da quando Federico si era perduto dentro se stesso, dopo una brutta avventura televisiva romana – pur avvertendoci in anticipo – «il poeta è morto…non scrivo più…ma di cosa dovrei scrivere oggi che ci hanno tolto anche le fate…di telefonini forse?»

Una vicenda umana questa di Federico che ancora avverto insistentemente. Sotto la pelle che fa finta di niente.

Il poeta è sempre stato un visionario, un sensitivo verso il grande luogo/corpo dell’esistenza; un visionario, un sensitivo, un cantore della realtà. Ma la realtà non è sempre comoda; né quella personale né tanto meno quella sociale. Il poeta anticipa, scava, penetra e porta alla luce. Anche ora che gli occhi di Federico non guardano più i prati e il cielo, quei prati e quel cielo della sua valle-prigione «se no tu scjampe/no tu scjampe pì/tu devente Andrèes», quegli occhi non mollano la presa, restano impressi, indelebili, nelle nostre pupille.

Tavan con Predrag Matvejevic
Tavan con Predrag Matvejevic

E noi lo riscopriamo, questo mondo, rileggendo le sue poesie, attraverso gli stati dell’animo che invadono i suoi versi. Stati dell’animo forse impalpabili ma che non smettono di accompagnare e rimandare alla nostra stessa esistenza che troppe volte un pudore convenzionale ci impedisce di liberare.

Autodifese sconosciute per Federico, che alle volte salvano molti di noi dall’abisso che la vita porta con sé. Hölderlin dice che il nostro destino è l’essere in cui «gli umani sofferenti ciecamente precipitano da un’ora all’altra, scagliati come l’acqua di roccia in roccia»; ma su queste rocce a volte vi sono attimi in cui l’uomo può prendere fiato. Come scordare quel viaggio parigino di Federico di cui fui accompagnatore e vittima sacrificale: «Eppure, se ci penso senza ipocrisie e infingimenti, sto passando uno dei più bei momenti della mia vita, sono molto sereno, forse mi manca solo un grammo, per essere felice, ma un grammo è tanto». Mentre lo accompagno a prendere il treno alla Gare de Lyon per il suo definitivo ritorno, fissandomi con i suoi grandi occhi, pieni di Parigi, questa volta con un filo di voce: «Ritorno nel mio dolore, lo accarezzo».

Ma sarà poi possibile per il poeta salvarsi? La contraddizione diventa l’arma insostituibile di chi è veramente poeta e non riduce la sua vena a un esercizio spirituale o giochetti tecnologici, uniti all’ansimante, vanitosa e schizofrenica ricerca di far cassa e di successo.

«Per i poeti professionisti – aggiunge sempre Federico dicendo con sottile e sferzante ironia, (…ché nella lingua di Andreis questa parola, professionisti, non esiste) si tratta di cosa seria che richiede fatica, e per concludere tre righe ci lavorano ben sei mesi». Per questi ultimi è ancora Federico che suggerisce la risposta, e in questo caso è più che mai determinata e senza pericolo di contraddizioni: «La poesia c’è o non c’è».

«Pare canto immediato e istintivo – scrive Aldo Colonnello della poesia di Federico – perché emerge dal fondo denso del vivere…limpida e rinfrescante e quasi inaspettata. Ma, appena uscita alla luce (più sognata che conosciuta), si ritrae nell’ombra…spaventata di dover riflettere in sé il mondo».

Ecco che il poeta ha paura di sé e del mondo, di riflettere “in sé il mondo”, e trasforma il suo impeto in buffoneria, diventado “scimmiario” di se stesso. Credo che questa sua vicenda umana si riveli con la stessa intensità in quelle, secondo Federico «diecimila fotografie» che gli ho scattato, e ne possa uscire leggendole, quel ruvido piacere con cui Federico cercava di liberare la sofferenza e il suo vivere il mondo. Fotografie in verità, sempre e comunque sorta di “autoritratti”, che Federico si “scattava da solo”. Fotografie dissacratrici, altre giocose, quasi sempre disperate, che rivelano quell’essere profondamente anarchico che era e che resterà Federico Tavan.

Per questo la poesia di Federico zampilla “gratuita” come dono, com’è per tutta la vera poesia. E non solo quella scritta. Per questo la vera poesia non si riduce a un rapporto di compravendita. Contiene e porta con sé un supplemento di memoria, di emotività, di affezione, di relazione, di reciprocità. La gratuità è atto di reciprocità. Segno di un’alleanza primitiva. Fatta di poco. Per questo risulta sovversiva e disturba la terrificante stupidità e il potere.

Dobbiamo molto a Federico Tavan alias Frederic Toffan/Roi Noir. Gli dobbiamo molto perché Federico era e resterà un vero Poeta.

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