Piacentini architetto littorio che Pasolini capì e sdoganò

Il saggio del docente friulano per Gaspari rivaluta l’archistar che disegnò l’Eur

Nel documentario tv “La forma della città” girato nel 1973 sulla spiaggia di Sabaudia, tra folate di vento che gli scompigliavano i capelli, Pier Paolo Pasolini formulò uno di quei suoi pensieri destinati a far discutere e comunque a far riflettere.

Il tema riguardava l’architettura e l’urbanistica fascista. Prendendo spunto da Sabaudia, fondata dopo una bonifica delle paludi nel 1933 e quindi cinque anni prima della friulana Torviscosa, il poeta disse: «Quanto abbiamo riso noi intellettuali sull’architettura del regime, sulle città come questa. Eppure adesso, osservandola, proviamo una sensazione inaspettata. La sua architettura non ha niente di irreale, di ridicolo. Il passare degli anni ha fatto sì che questo stile di carattere littorio assuma un carattere, diciamo così, tra metafisico e realistico».

Parole che suscitarono un vespaio, tipico di ogni apparizione pasoliniana, anche perché l’architettura faceva ancora dibattere e accalorava, come accadde durante il Novecento, in particolare nella prima metà quando «si governava anche con l’architettura, quale strumento di consenso politico e dispositivo identitario per le masse.

E se c’è un personaggio che fra tutti esprime la centralità ricoperta dall’architettura, questi è Marcello Piacentini, che ebbe un enorme potere, più di chiunque altro e sotto diversi aspetti...». Parole poste come premessa in un libro importante (consigliabile a tutti, non solo a specialisti o studiosi della materia) che fa luce, in una analisi biografica minuziosa, su un nome centrale nella storia italiana, anche se pochi lo sanno fuori dell’ambito in cui agì.

Una biografia scritta non per demonizzare o, al contrario, rivalutare, ma allo scopo di indagare in profondità per collocarlo nel giusto rilievo, andando oltre qualsiasi pregiudizio, riproponendo la complessità delle numerose relazioni in cui si mosse durante le epoche attraversate: prima, durante e dopo il ventennio fascista. L’esito della ricerca è il libro intitolato “Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia” (Gaspari editore, 362 pagine, 24,50 euro) di cui è autore Paolo Nicoloso, originario di Buja, docente di Storia dell’architettura all’università di Trieste e che ha già all’attivo pubblicazioni dedicate a quel periodo come “Gli architetti di Mussolini” o “Architetture per un’identità italiana”.

In questo caso, con un ampio accompagnamento di immagini (tra fotografie e progetti), Nicoloso narra la storia controversa di colui che venne definito «l’architetto del fascismo» anche se Mussolini, scegliendo di testa sua pure in tale campo, non ebbe proprio un prediletto, ma indubbiamente fu Piacentini il più a contatto di gomito, come si nota nella lunga carrellata di istantanee che li mostra assieme, durante i 60 incontri ufficiali e documentati che ebbero per concordare i grandi progetti con i quali trasmettere un’immagine plastica del regime, traducendo così il mito della politica totalitaria.

Eppure, come Nicoloso sostiene e dimostra, l’architetto nato a Roma nel 1881 non fu un semplice esecutore e anzi la sua adesione non divenne fideistica, bensì strumentale. Insomma, si servì del fascismo, che per lui non era proprio un credo politico.

Curioso anche il suo apprendistato, segnato da una bevuta di olio di ricino impartitagli da una squadraccia in quanto era massone. Episodio del quale Piacentini, abile trasformista, si servì per cominciare la sua scalata fino a Mussolini, al quale non lo legò un rapporto di amicizia, solo di reciproca convenienza.

La biografia illumina tutto ciò grazie a una scrittura incalzante, illustrando il singolare rapporto che passa attraverso decine di progetti, a Roma e in tutta Italia, compresa Trieste.

Da segnalare il singolare rapporto che Piacentini, in un ambiente difficile, segnato da gelosie professionali e tranelli vari, ebbe con un notevole architetto di origine istriana, Giuseppe Pagano Pogatschnig, dalla genialità polemica e meno incline agli accomodamenti, che nel ’43 aderì all’antifascismo, fu arrestato e morì poi nel campo di Mauthausen.

Volendo creare il mondo ideale per “l’uomo nuovo fascista”, due furono i progetti in cui duce e architetto soprattutto si impegnarono a Roma: la città universitaria e l’E42, il quartiere per l’Esposizione universale del 1942, che doveva precedere le Olimpiadi del ‘44.

Progetti bloccati naturalmente dalla guerra e ripresi dopo quando Piacentini, superato il processo per la minacciata epurazione, cominciò una nuova stagione, aggrappandosi ai potenti di turno, in particolare a Giulio Andreotti.

Ma su di lui, morto nel 1960, calò la scure dei durissimi giudizi espressi da Bruno Zevi, suo ex allievo. Solamente negli anni Novanta si ebbe una svolta attraverso un’analisi della sua architettura meno condizionata dal pregiudizio ideologico.

E qui si inserisce ora come novità questa biografia sull’archistar per tutte le stagioni, l’uomo che voleva cambiare il volto all'Italia.

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