Paolo Gori, un fotografo dal Friuli a Città del Messico

«Sono allievo di Toffoletti e di D’Olivo. Tutto cominciò con le Olimpiadi del ’68»
Di Giovanni Zanolin

Il Circolo Culturale Menocchio di Montereale Valcellina pubblica Na Bolom, il Diario maya dello scrittore pordenonese Giovanni Zanolin. Eccone l’estratto sull’incontro in Messico con il fotografo friulano Paolo Gori.

di GIOVANNI ZANOLIN

Ho conosciuto Paolo Gori a Majahual, a un incontro fra operatori culturali messicani e italiani. «Sono nato a Tarcento, in Friuli, nel 1937 e vivo a Città del Messico. È una città gigantesca e piena di problemi. Forse sono 35 milioni i suoi abitanti. Non si sa quanti siano effettivamente i messicani, oltre 120 milioni, probabilmente. La concentrazione nella capitale non ha eguali in altri paesi. Ci sono giorni in cui la città cresce di 10.000 persone. Moltissimi non vogliono nemmeno essere censiti, semplicemente perché c’è una forte, storica diffidenza verso le autorità. La vita, per la grandissima parte di chi abita a Città del Messico, è durissima, senza servizi sanitari, fognature, acqua in casa, scuole per i bambini e sicurezza. Per molti anche il cibo è poco, o di scarsa qualità. Quando arrivai, nel 1966, nel cartello che si trovava all’entrata della città, stava scritto che aveva 4,9 milioni di abitanti. In realtà già allora erano di più. Ma non mi stupisce questa dimensione, chi vuol abituarsi al Messico fa subito i conti con la sensazione che qui tutto sia molto grande».

Paolo fuma uno dei sigari toscani che gli hanno portato dall’Italia. «Ero pronto a innamorarmi del Messico, in realtà. Tutto quel che avevo fatto prima spingeva in questa direzione, anche se non ne ero consapevole. Durante la guerra mio padre diede un po’ di soldi e forse cibo a un ufficiale tedesco. In cambio ottenne una splendida macchina fotografica. Mio fratello maggiore fu preso dalla passione per la fotografia ed organizzò in casa un piccolo studio, con quanto serviva per sviluppare le foto. Ero piccolo, sette, forse otto anni, ma presto imparai. Lui lasciava Tarcento per frequentare il Collegio Don Bosco a Pordenone. Mandarlo dai salesiani parve a mia madre il modo migliore per salvarlo dall’arruolamento forzoso cui sarebbe stato costretto se sorpreso in casa, magari nel corso di qualche rastrellamento. Si salvò infatti. A me, per lunghi mesi, in quegli anni di guerra e subito dopo, rimase quella macchina, un po’ di pellicola, il necessario per sviluppare. Nacque così la mia passione per la fotografia. Ho avuto la fortuna di diventare amico di Riccardo Toffoletti, che aveva un anno più di me ed era figlio di una fotografa, che a sua volta aveva ereditato lo studio da suo padre, il primo fotografo di Tarcento. Riccardo perciò era più avanti di me e mi insegnò alcune cose. Lui, soprattutto, secondo me stampava molto bene. Feci le scuole superiori a Udine, al liceo Stellini. Sul finire del liceo un mio compagno di classe ebreo, mi condusse a incontrare l’architetto Marcello D’Olivo a Udine, pure lui ebreo. Io non avevo né diplomi né capacità tecniche che potessero essere utili a D’Olivo, ma lui, visti alcuni miei disegni, mi disse che potevo rimanere nel suo studio. Era un uomo incredibilmente creativo, schizzava sulla carta idee, sulle quali noi disegnatori cercavamo di intervenire. Ma da questo impegno io non traevo alcun reddito. Dormivo nello studio di D’Olivo a Udine, potevo andare in trattoria a mangiare a sue spese, ma non vedevo una lira. Sono stato due anni da lui, ricordo in particolare due suoi lavori: il villaggio turistico di Manacore Garganico e il progetto di una grande città universitaria a Riad. Chiedo a Paolo come abbia iniziato a fare il fotografo in Messico. «Fu una cosa pazzesca. Era il 1966, si stavano preparando le Olimpiadi del 1968. Conobbi l’ex presidente del Messico Lopez Mateo, che era presidente del Comitato organizzatore. Lo convinsi a realizzare una sorta di libro da distribuire a tutti i turisti che sarebbero venuti in Messico per l’occasione, per convincerli a non limitarsi a visitare Città del Messico, ma anche le meraviglie del paese. Lui mi incoraggiò e, a mie spese, iniziai a girare tutto il Sud del Messico per fotografare paesaggi, città, persone. Feci 500.000 chilometri con le strade di allora, imparagonabili con quelle di oggi, sfasciando tre maggiolini Volkswagen. Spesi tutti i miei soldi. Purtroppo Lopez Mateo morì e a succedergli fu chiamato Pedro Ramirez Vasquez. Costui letteralmente mi rubò le foto, un anno e mezzo di lavoro. Una polizia speciale di allora, la policiales, una sorta di corpo senza controlli, venne in casa mia e mi rubarono persino i negativi. Anni dopo ricevetti dal Ministero dell’Interno un ordine perentorio di andarmene dal Messico entro poche ore. Mi precipitai da Ramirez Vasquez chiedendogli di far ritirare quell’ordine. Lui dettò alla sua segretaria una lettera indirizzata al viceministro degli interni, nella quale magnificò il mio contributo alla riuscita dell’operazione Olimpiadi. Nell’occasione mi mostrò le tante mie foto pubblicate, che io nemmeno avevo mai viste e che erano uscite senza alcuna indicazione dell’autore. Insomma quei 18 mesi di lavoro servirono perlomeno a garantirmi la possibilità di stare in Messico a tempo indeterminato.

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