Morta Sue Lyon irripetibile Lolita nel film del 1962 di Stanley Kubrick

Paolo Medeossi
«Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta». Parole celebri, citatissime, perché cominciava così il romanzo che, apparso nel 1955 e tradotto in italiano nel 1959, colpì l'immaginario e le fantasie facendo conoscere nel mondo Vladimir Vladimirovic Nabokov, scrittore russo nato nel 1899 a San Pietroburgo, scappato con la famiglia dopo la rivoluzione, prima in Inghilterra, poi in Francia e in Germania. La sua Lolita, la ragazzina dodicenne di cui si innamorò perdutamente, e ignominiosamente, il patrigno, Humbert Humbert, professore di 37 anni, sarebbe rimasta forse una vaga indecifrabile figurina se nel 1962 l’immenso Stanley Kubrick non avesse deciso di fare un film del romanzo che aveva suscitato tanto scandalo (ma con 50 milioni di copie vendute pur fra proteste e infinite polemiche) scegliendo come interprete nel ruolo più conturbante e complicato una quattordicenne americana dal volto angelico, Sue Lyon, attrice che in pratica legò a quel ruolo tutta la carriera, continuata poi senza prove altrettanto clamorose. La notizia della sua morte a 73 anni ha ora riacceso i fari dell'attenzione su quel periodo di oltre mezzo secolo fa per rievocare l’impatto che letteratura e cinema ebbero proponendo una delle storie più audaci mai scritte e immaginate.
Si disse allora che “Lolita”, al di là dei suoi dettagli maggiormente sconcertanti ed estremi, rappresentava il romanzo più autentico e incisivo sulla decadenza del costume contemporaneo, narrando con precisione quasi clinica l’esplosione deformante di una passione amorosa e rivalutando, per contrasto, in un mondo che l’aveva perduta, l’innocenza e la sua gioia. Mettendo dunque in rilievo l’alienazione morale di un uomo, Humbert Humbert, Nabokov metteva in scena l’alienazione di tutta una società per dimostrare come il peccato non renda l’uomo libero, ma crei invece un profondo contrasto tra lui e la sua intima e giusta natura. Insomma, l’inseguimento della felicità, da raggiungere attraverso il sogno impossibile di una seducente Lolita, si conclude con l’inevitabile autodistruzione del protagonista.
Questo il disegno e il messaggio di Nabokov, ai quali Stanley Kubrick dedicò la sua straordinaria arte registica che, per esplorare il tema dell’ossessione sessuale, mise insieme la bravura sublime di James Mason (nei panni del contorto e deluso Humbert), di Shelley Winters (l’ingenua e confusa mamma della ragazzina precoce) e Peter Sellers (ovvero il rivale di Humbert, l’ubiquo e camaleontico Clare Quilty). E tra mostri sacri del genere spuntò lei, Sue, con i suoi occhiali a cuoricini rossi e l’eterno lecca lecca, simbolo di una sensualità adolescenziale e scabrosa, come la si vede nel giardino di casa, mentre prende il sole candida e maliziosa. Lolita è il soprannome che Humbert dà in privato alla ragazzina. E il termine Lolita, complice soprattutto il film, fece subito sensazione entrando nella cultura di massa degli anni Sessanta, prendendo a significare ovunque, per antonomasia, una diabolica ninfetta, piccola seduttrice, non si sa fino a qual punto inconsapevole, o anche una giovanissima sessualmente precoce o comunque attraente.
L’unico ad andare genialmente controcorrente rispetto a tutto questo fu Umberto Eco che, a una simile Lolita, contrappose in un racconto apparso nel 1963 la sua Nonita, ovvero una signora anziana concupita da un certo Umberto Umberto, che un giorno addirittura la rapì fuggendo con lei, sulla canna della bicicletta, fino all’inevitabile sfacelo. —
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