Mario Biondi: «Ce l’ho fatta senza spinte, mai avuto tessere di partito»

Il cantante catanese terrà un concerto stasera all’Outlet di Noventa di Piave. «L’invidia sana fa bene: invece di maledire il nemico, ti spinge a diventare più bravo di lui»

UDINE. Beyond by Mario Biondi. «È una sorta di pronipote di If», dice lui. Il ragazzo del soul dalla voce molto black ci riversa dentro la passione che gli gira dentro da quando, dodicenne, gorgheggiava in chiesa.

E proprio perché un destinato alla sofferenza d’artista - i commerciali duri e puri hanno un cuore che pompa insensibilità - vive di picchi e di momentanee discese.

Il dubbio è diventato quasi un convivente. «Alle volte, se potessi, ritornerei in studio e registrerei tutto da capo. Sa cos’è? La fretta che ci mettiamo in quest’era veloce, eccessivamente veloce. Leggendo il libro di Burt Bacharach The book of love risalta un metodo ormai improponibile. Tre settimane di prove per l’orchestra, altrettante soltanto con i cantanti, avete capito? Si facevano le cose per bene. Adesso, anche insistendo non puoi».

Il tour, tanto per cambiare, è a perdifiato. Stasera, 21 canoniche, il catanese sarà nella piazza del “Noventa di Piave Designer Outlet”. Si preannuncia calca. Poi Taormina, Parigi...

Ovviamente sarà Beyond (uscito a maggio) - con una decisa miscellanea di funky, soul, dance e reggae - a trainare la scaletta, ma i perni musicali di Mario, in qualche punto imprecisato del concerto, verranno a galla sicuramente.

- Cos’è che domina la sua musicalità?

«Direi la veemenza, ma forse è un termine troppo aggressivo. Direi, banalmente, la passione feroce da sempre».

- Se autentica, poi, torna indietro come un salutare boomerang.

«Sento l’affetto del pubblico, è benzina necessaria. Quando sale su dalla platea e avvolge il palco. Ti senti meglio, dai il meglio. Ora divento utopista. Vorrei che ci fermassimo un po’ tutti, rinfoderando l’aggressività e sfoderando il rispetto. L’eccessiva tensione spacca i nervi. E il vivere diventa faticoso».

- Restringendo, Biondi. Nel carrozzone della musica cosa va e cosa no.

«Mi piace resistere nella mia bolla. Ho faticato non poco a conquistare Terra, anche subendo spallate e spintoni. Sa, non ho tessere di partito, non sfoggio ideologie, non prendo posizioni. Non sempre è un bene. Resta l’orgoglio di aver raggiunto una meta senza propulsioni atipiche. Musica, voce, determinazione, lavoro. Fine».

- L’invidia è una brutta bestia.

«Si potrebbe anche rivoltare la faccenda, volendo. Invidia pure il tuo bravo nemico, ma ciò ti dovrebbe spronare a superarlo e non a maledirlo. Allora la negatività diventerebbe stimolazione sana. Vuoi mettere la differenza. Che facciamo? Investiamo energie per fregarlo invece di impegnarci a crescere».

- Un giorno lei incontrò Ray Charles.

«Ero davvero un ragazzino, quella sera a Taormina. Stavo sotto un gazebo proprio di fronte al palcoscenico dove salì Ray. Mi arrangiavo col piano bar e avevo un mito in testa: Al Jarreau. Sì, Charles, certo, non come Al, però. Imbarazzato? Ovvio. Conoscevo la grandezza dell’uomo. Non fu l’unico concerto che condivisi con una star. Sebbene fossi un giovanotto (Mario è targato 1971, ndr) cantai prima di Fred Bongusto, Franco Califano, Peppino Di Capri, Bruno Martino e tanti altri».

- Allora non c’erano i talent per sbarbini e sbarbine. Si esprimeva già così a dieci anni?

«Con tonalità meno cupe, nonostante il timbro fosse già quello».

- E non essendoci ancora la Clerici su Raiuno, chi la scoprì?

«Mio padre. Stava davanti a un microfono e conosceva bene la forma del talento. Senza l’insistenza di certi papà o di certe mamme. Con naturalezza lasciò che scegliessi il futuro».

- L’abbiamo intravista al Coca Cola Summer Festival. Una sorta di rinascita del Festivalbar?

«Beata aggregazione. Per noi e per chi guarda, immagino. Sa di estate».

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