La tragica fine di un amore: il romanzo d’esordio di Dora Šustić

Una storia di riscatto nel nuovo libro della scrittrice edito da Bottega Errante. La trama si dipana da Rijeka a Istanbul fino all’Andalusia

Francesca Schillaci
Spettacolare scorcio della cittadina andalusa di Ronda foto archivio agf
Spettacolare scorcio della cittadina andalusa di Ronda foto archivio agf

«Odio il fatto che anche questo viaggio si sia ridotto a una riesumazione delle sue ossa. So che mi libererò di lui nel momento esatto in cui mi libererò delle sue fotografie.” Un viaggio tra Praga, l’Andalusia, Istanbul e Rijeka traccia la nascita fisica ed emotiva di una giovane donna alla ricerca di un riscatto da un amore tossico che l’ha condannata all’autolesionismo e allo sradicamento. Nell’esordio letterario “I cani” di Dora Šustić (Bottega Errante, pag. 226, euro 18), tradotto da Sara Latorre, Dora è la protagonista di un viaggio verso l’età adulta, destinata a scontrarsi molto presto e molto velocemente con i demoni della morte, incastrati troppo spesso dentro le vite degli artisti.

Giovane, florida, pronta a trasferirsi da Rijeka a Praga per studiare sceneggiatura, Dora lascia un’infanzia tranquilla, rappresentata da un’immagine familiare piena di amore e accoglienza, dove la figura del padre è l’ideale che ogni figlia desidera: innamorato della madre, forte e presente. Non ci sono traumi nella vita di Dora, quasi fosse questo il problema da risolvere. Presto, a Praga, il desiderio di esplorare la vita e oltrepassarne i limiti si esaudisce nell’incontro con Leon, fotografo professionista alle prese con la depressione e fantasmi del passato, troppo pesanti da sopportare a lungo.

Un amore travolgente li unisce, li aggroviglia e li plasma per sei mesi durante i quali la ragazza diventa rapidamente una donna attraverso l’esplorazione del corpo in tutte le sue trasformazioni. Ma il corpo di una donna non si slega dal suo intelletto e Dora è costretta a osservare la sua metamorfosi con una lente di ingrandimento sui sentimenti che diventano la sua gabbia e il suo riflesso. Il sesso travolgente, a tratti violento, fa della coppia un corpo in divenire, dove flussi di sangue, percezioni tattili delle ossa, l’intensità interna del ventre stravolgono e affermano i diritti intimi di tutto il genere femminile, scardinandosi da ogni precetto moralista e perbenista.

Uno stile, questo, che molto ricalca “L’amante” di Marguerite Duras. «Ero modellabile come sabbia. Faceva con me tutto ciò che voleva e in quel concedermi sentivo un potere incredibile, come se, guardando lui così fragile dominare il mio corpo, fossi io a dominare lui». Come le più degne tragedie che innalzano il concetto di eros-thanatos, presto la coppia si sfalda, la morte arriva, le ferite si squarciano e altro sangue inizia a scorrere nella trasformazione di Dora.

Restano delle fotografie e un libro che Leon le lascia come perenne baluardo di appartenenza. Un macigno da portare per l’eternità che spinge Dora alla ricerca del passato di Leon attraverso i galgos, i levrieri andalusi che l’uomo fotografava mentre venivano massacrati per non affrontare una morte che contemporaneamente si insinuava anche nella sua vita. Snelli, dolcissimi e mansueti, i corpi dei cani ricordano il corpo di Leon, magrissimo e spento, «gli occhi si opponevano a qualsiasi traccia di giovinezza e ad appena trentanove anni sembrava terribilmente vecchio, fuori moda, senza alcun interesse per la superficie».

I levrieri sono la metafora di una società autocondannata all’eccidio, violenta, crudele e accettata per tradizione. Sui passi di quei cane, attraverso le fotografie, Dora cerca il senso della fine che si eleva a errore di tutte le morti per sottomissione, per fragilità e per abbandono; a Ronda, vicino a Cadice in Andalusia, ripercorre i luoghi e le possibilità, ricerca quegli spettri per comprendere meglio come si possa restare vivi.

Per farlo Dora scrive, trasferisce nelle parole tutta la sua storia, la proietta e la trasforma per imparare a resistere, consapevole che «la scrittura non è altro che un suicidio dilatato nel tempo». Il corpo è l’elemento principale attorno al quale si svolge ogni azione, è il luogo del piacere e del dolore, la casa da ripulire e allo stesso tempo da sporcare: «Il cibo era diventato una punizione, e la fame un sintomo di perdono».

Resta solo la scrittura come scheletro di un corpo destinato a scomparire; la scrittura che diventa atto spregiudicato per punire la morte, un urlo disobbediente e sconvolgente che fa della memoria una rivincita di fronte allo sfacelo. 

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto