La tragica fine di un amore: il romanzo d’esordio di Dora Šustić
Una storia di riscatto nel nuovo libro della scrittrice edito da Bottega Errante. La trama si dipana da Rijeka a Istanbul fino all’Andalusia

«Odio il fatto che anche questo viaggio si sia ridotto a una riesumazione delle sue ossa. So che mi libererò di lui nel momento esatto in cui mi libererò delle sue fotografie.” Un viaggio tra Praga, l’Andalusia, Istanbul e Rijeka traccia la nascita fisica ed emotiva di una giovane donna alla ricerca di un riscatto da un amore tossico che l’ha condannata all’autolesionismo e allo sradicamento. Nell’esordio letterario “I cani” di Dora Šustić (Bottega Errante, pag. 226, euro 18), tradotto da Sara Latorre, Dora è la protagonista di un viaggio verso l’età adulta, destinata a scontrarsi molto presto e molto velocemente con i demoni della morte, incastrati troppo spesso dentro le vite degli artisti.
Giovane, florida, pronta a trasferirsi da Rijeka a Praga per studiare sceneggiatura, Dora lascia un’infanzia tranquilla, rappresentata da un’immagine familiare piena di amore e accoglienza, dove la figura del padre è l’ideale che ogni figlia desidera: innamorato della madre, forte e presente. Non ci sono traumi nella vita di Dora, quasi fosse questo il problema da risolvere. Presto, a Praga, il desiderio di esplorare la vita e oltrepassarne i limiti si esaudisce nell’incontro con Leon, fotografo professionista alle prese con la depressione e fantasmi del passato, troppo pesanti da sopportare a lungo.
Un amore travolgente li unisce, li aggroviglia e li plasma per sei mesi durante i quali la ragazza diventa rapidamente una donna attraverso l’esplorazione del corpo in tutte le sue trasformazioni. Ma il corpo di una donna non si slega dal suo intelletto e Dora è costretta a osservare la sua metamorfosi con una lente di ingrandimento sui sentimenti che diventano la sua gabbia e il suo riflesso. Il sesso travolgente, a tratti violento, fa della coppia un corpo in divenire, dove flussi di sangue, percezioni tattili delle ossa, l’intensità interna del ventre stravolgono e affermano i diritti intimi di tutto il genere femminile, scardinandosi da ogni precetto moralista e perbenista.
Uno stile, questo, che molto ricalca “L’amante” di Marguerite Duras. «Ero modellabile come sabbia. Faceva con me tutto ciò che voleva e in quel concedermi sentivo un potere incredibile, come se, guardando lui così fragile dominare il mio corpo, fossi io a dominare lui». Come le più degne tragedie che innalzano il concetto di eros-thanatos, presto la coppia si sfalda, la morte arriva, le ferite si squarciano e altro sangue inizia a scorrere nella trasformazione di Dora.
Restano delle fotografie e un libro che Leon le lascia come perenne baluardo di appartenenza. Un macigno da portare per l’eternità che spinge Dora alla ricerca del passato di Leon attraverso i galgos, i levrieri andalusi che l’uomo fotografava mentre venivano massacrati per non affrontare una morte che contemporaneamente si insinuava anche nella sua vita. Snelli, dolcissimi e mansueti, i corpi dei cani ricordano il corpo di Leon, magrissimo e spento, «gli occhi si opponevano a qualsiasi traccia di giovinezza e ad appena trentanove anni sembrava terribilmente vecchio, fuori moda, senza alcun interesse per la superficie».
I levrieri sono la metafora di una società autocondannata all’eccidio, violenta, crudele e accettata per tradizione. Sui passi di quei cane, attraverso le fotografie, Dora cerca il senso della fine che si eleva a errore di tutte le morti per sottomissione, per fragilità e per abbandono; a Ronda, vicino a Cadice in Andalusia, ripercorre i luoghi e le possibilità, ricerca quegli spettri per comprendere meglio come si possa restare vivi.
Per farlo Dora scrive, trasferisce nelle parole tutta la sua storia, la proietta e la trasforma per imparare a resistere, consapevole che «la scrittura non è altro che un suicidio dilatato nel tempo». Il corpo è l’elemento principale attorno al quale si svolge ogni azione, è il luogo del piacere e del dolore, la casa da ripulire e allo stesso tempo da sporcare: «Il cibo era diventato una punizione, e la fame un sintomo di perdono».
Resta solo la scrittura come scheletro di un corpo destinato a scomparire; la scrittura che diventa atto spregiudicato per punire la morte, un urlo disobbediente e sconvolgente che fa della memoria una rivincita di fronte allo sfacelo.
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