“Mai più sole”, così nacque la prima mobilitazione contro la violenza sessuale

Una giovane veronese nel ’76 denuncia i suoi aggressori: il processo diventa un caso nazionale. Fino al 1996 lo stupro era considerato un delitto contro la morale, non contro la persona

Andrea Zannini
Un’immagine del volume di Nadia Maria Filippini: una manifestante con taszebao (foto archivio Lucas Ulliano)
Un’immagine del volume di Nadia Maria Filippini: una manifestante con taszebao (foto archivio Lucas Ulliano)

UDINE. Nel settembre 1975 giornali e telegiornali titolano a quattro colonne sul delitto del Circeo. Due ragazze di 19 e 17 anni che hanno fatto amicizia con due ragazzi di buona famiglia sono state sequestrate e violentate per due giorni in una villa al Circeo. Vengono ritrovate nel portabagagli di un’auto: una morta, l’altra in fin di vita.

L’anno seguente, mentre si apre a Latina il processo che avrebbe condannato all’ergastolo i due massacratori del Circeo, in provincia di Verona una giovane minorenne, che torna la sera a casa con il fidanzato, viene violentata da due uomini che, dopo aver picchiato il giovane, la stuprano e la minacciano, ma la lasciano andare. Il processo che ne seguirà, e che costituirà una svolta nella storia in Italia della violenza sulle donne, è al centro della minuta ricostruzione storica compiuta da Nadia Maria Filippini in Mai più sole contro la violenza sessuale. Una pagina storica del femminismo degli anni Settanta (Viella 2022).

Fino alla legge contro la violenza sessuale del 1996 lo stupro era considerato un delitto contro la morale e il buoncostume, non contro la persona. Questo comportava, ad esempio, che fosse perseguibile solo per denuncia di parte e costituzione di parte civile.

È quanto fece la ragazza del veronese, “Alma” – il nome è di fantasia, per tutelare la sua privacy ed il diritto a non venir più nominata: denunciò i suoi aggressori, pur sapendo che questo avrebbe comportato un ulteriore pesantissimo costo personale. Iniziarono infatti le visite mediche, gli interrogatori per sapere se si fosse trattato di vera e propria violenza o non “semplici” atti di libidine violenta, i titoli di giornale, gli articoli, la curiosità morbosa della gente. Era solo la prima parte di quella “vittimizzazione secondaria” che sottopone le vittime di violenza sessuale ad una seconda violenza per il fatto stesso che il corpo della donna diventa il corpo del reato.

La seconda parte di tale calvario si sarebbe celebrato nel corso del processo. Ma i tempi erano particolari. Si era nel pieno dell’ondata neo-femminista, con imponenti manifestazione di piazza, anche sulla spinta della vittoria nel referendum confermativo della legge sul divorzio del 1974 o della nuova legge sul diritto di famiglia del 1975. Il movimento di liberazione delle donne, termine ormai preferito a quello di “emancipazione”, chiese che per evitare la trasformazione del processo in un processo alla vittima, fosse tenuto a porte aperte, in modo che diventasse una denuncia della violenza sulle donne, in tutte le sue sfaccettature.

Il processo si aprì in ottobre presso il Tribunale di Verona e l’istanza ma l’istanza che fosse svolto a porte aperte fu subito rigettata: solo l’escussione dei testi e il dibattimento sarebbero stati pubblici, non gli interrogatori della parte lesa e degli imputati.

Gli undici giorni che separarono la prima dalla seconda udienza trasformarono il processo di Verona in un evento nazionale, con articoli di tutti i quotidiani, riunioni e assemblee continue nei circoli femministi e, soprattutto, l’assunzione della difesa delle parti civili (Alma e suo padre) di due avvocate di calibro nazionale come Tina Lagostena Bassi e Anna Magnani Noya.

La determinazione delle donne a prendere parte al processo provocò lo sgombero dell’aula da parte delle forze dell’ordine. Ne seguì una mobilitazione continua con manifestazioni e proteste che durarono giorni: costituì, per le migliaia di ragazze che se ne interessarono o vi parteciparono, una palestra di consapevolezza.

Lo svolgimento del processo e la sentenza ebbero una grande risonanza: tutti i media nazionali, anche quelli “borghesi”, e la televisione, mostrarono empatia per le istanze delle donne di Verona. Più assente la città.

Grandi discussioni ebbero luogo nella sinistra e nel movimento delle donne: la violenza sulle donne è il frutto di una società maschilista, una ricaduta dello sfruttamento capitalistico, o entrambe?  Intanto il clamore suscitato dal processo «aveva rotto un silenzio secolare e spezzato il meccanismo che destinava le vittime a una sofferenza intima e oblativa».

Da oggetto della violenza, la donna era diventata un soggetto di un processo alla violenza in genere degli uomini sulle donne.

Tra le righe, con sensibilità e tatto, Nadia Maria Filippini ci racconta qualcosa anche di Alma, la sua straordinaria maturità, la sua ferma risolutezza, il suo percorso di crescita che dalla sofferenza portò alla consapevolezza politica. Una donna che volle far valere i suoi diritti, e che non fu lasciata sola. —

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