Lo sguardo indagatore del poeta Leonardo Zanier, il cantore della Carnia
Il musicista Gigi Maieron rievoca la sua amicizia con lo scrittore scomparso nel 2017. Appuntamento venerdì 7 luglio (alle 21) in piazza a Pesariis con “Liber di scuignî lâ, da confin a confin”

Nell’ambito di “Estensioni”, il festival di Bottega Errante che animerà la val Pesarina, domani, venerdì 7 luglio alle 21, in piazza a Pesariis, appuntamento con «Liber di scuignî lâ, da confin a confin», l’omaggio a Leonardo Zanier (scomparso nel 2017) in un inedito racconto in musica di Gigi Maieron, che qui racconta la sua amicizia con il poeta.
Gigi Maieron
Il primo incontro con Leonardo Zanier risale ad agosto 2006. Arrivai alla sua casa di Maranzanis con un po’ d’emozione. Per me la sua poesia era un riferimento, così l’uso del suo friulano. Dopo due ore, mi congedò con la promessa di rivederci prima del suo ritorno in Svizzera.
Quell’agosto ci rivedemmo un paio di volte. L’estate successiva, gli proposi un approfondimento sulle sue poesie. Volevo farne un libricino, un invito alla lettura. Intendevo scoprire la sua genesi poetica. Viodarin. Vedremo, mi rispose dopo una pausa.
Provai ad insistere. Viodarin, ribadì la sua voce catramosa. Non mi parve entusiasta, ma mi avventurai ad insistere. Al terzo viodarin, cambiai discorso. Tuttavia l’estate seguente, quando tornò in Carnia, cominciammo a frequentarci con continuità. Credo non gli spiacesse il tuffo nel passato a cui lo costringevo, e poi gli tornavo utile perché gli portavo sigarette e giornali, dato che non aveva neppure l’auto.
Seduto davanti a lui, respiravo il suo fumo, subivo il suo sguardo indagatore, i suoi occhi mi scrutavano per valutare se le mie erano buone intenzioni, o una perdita di tempo. La sua barba si muoveva nervosa alle mie considerazioni e pareva propendere per la prima ipotesi: mi la contie juste chel achì? (me la racconta giusta?).
Forse era solo un’impressione, ma Leo non era uomo facile e c’era sempre il timore dei suoi giudizi al vetriolo. La sua voce poi, inquietante, pareva sempre esprimere una condanna. Non era facile star sereno in sua presenza, soprattutto se ti misuravi sulla profondità delle sue idee e sulla sua poetica.
I primi incontri furono più che altro esplorativi e di reciproca conoscenza. Leo un po’ ci credeva e un po’ no: il compito si presentava lungo ed incerto. Ogni distrazione si prendeva i suoi spazi e si finiva per parlare d’altro, ogni scusa era buona, ma tutto è tornato utile, perché non dovevamo più accontentarci solo del tratto poetico, l’amicizia cresceva e la reciproca compagnia ci faceva bene, ma Leo puntava a risultati concreti e ad arrivare ad una conclusione.
Certo non pensavo che ci sarebbero voluti anni… Intanto le cose procedevano nell’incertezza, lui desideroso di vedermi chiudere presto per vedere il risultato, io a convincerlo che si doveva aspettare. Il modo giusto per completare il libro sarebbe arrivato da sé. Ma Leo aveva chiara una cosa, la sua poesia c’era, era lì, bastava solo leggerla, non servivano tanti concetti.
Dopo ogni incontro tornavo a casa e prendevo appunto di tutto ciò che ci eravamo detti, in seguito cominciai delle registrazioni audio. Prendevo nota anche di ciò che facevamo, di quanto ci capitava attorno, quantomeno delle cose essenziali.
Allora mi sembrava che gran parte di quelle note fossero inutili o quasi. Oggi, rileggendo gli appunti scopro non esserci niente di inutile e mi rammarico di non averne raccolti di più. Per i tempi lunghi e la conclusione del lavoro è stato bene aspettare, la sua poetica è troppo importante per non approfondirla come è avvenuto nel tempo. Mi era chiaro anche che dovevo dargli voce e non sempre era disposto a parlare.
Così era bene non precipitare, per non avere un risultato a metà, interessante comunque, ma a metà, come molti lavori su Leo, comunque utili, è un bene ci siano, concorrono a far capire i tanti aspetti di questo poeta profondo. Spesso sono finestre aperte da cui vedi un pezzo di Leo. Io ho voluto dargli voce e per farlo ho dovuto aspettare che lui si fidasse, che si convincesse a farlo.
Dopo diversi appuntamenti, decisi che dovevo partire dalla famiglia, spiegare le origini, raccontare i suoi luoghi. Erano importanti i ricordi, la sua infanzia, i suoi parenti. Mai però si parlava di sentimenti, quelli erano un capitolo a parte e se chiedevo qualcosa in tal senso ottenevo silenzi e divagazioni sul bello e cattivo tempo delle valli di Carnia.
Mi guardava con sospetto nel cogliere la mia passione per il suo lavoro e le prime volte credo mi mettesse alla prova, finendo presto gli incontri, o non dimostrandosi tanto interessato alla mia ricerca. Via via però, le cose sono cambiate e si è proceduto all’unisono. “Tu parli e io prendo nota, non voglio interpretare ma ascoltare”. I colloqui sono stati fatti usando soprattutto il friulano, ma le trascrizioni sono in italiano, ma per sentire il suono di Leo basta una traduzione mentale.
Mi resta il privilegio di una interminabile sequenza di incontri. Di pranzi carnici, di ragionamenti e battute sarcastiche. Come quando mi disse. Trop la tiristu a lunc? (quanto la tiri a lungo). No sarà migo come la tele di Penelope, che achì il timp al passe (non sarà mica come la tela di Penelope che il tempo passa). Io mi azzardai a dirgli che non erano discorsi da fare, che Leonardo Zanier era un giovanotto…
Lui mi guardò con puntiglio e disse. No lu dîs par me, lu dîs par te. (non lo dico per me, lo dico per te). Non ci resta che raccontare il resto, ci sarà una sedia vuota a simbolo della sua presenza. Ci sarà la sua Carnia, le sue montagne e il suo canto preferito. Mieli, cuant chi pasi dongje Mieli, mi ven voe di vaî. —
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