L’Italia libera Gorizia, muore l’imperatore e in Russia cade lo zar

Un viaggio nella nostra storia nel centenario della grande guerra: luoghi, personaggi ed eventi in uno dei principali teatri dei combattimenti. La quattordicesima puntata

Siamo al terzo autunno, ma le cannonate hanno diluito anche le stagioni con il contributo di lampi e tuoni, intervallati soltanto dal silenzio della morte. Dal 24 maggio 1915 hanno cambiato aspetto le colline carsiche, le montagne carniche, le Dolomiti venete, le città e i paesi sparsi della Bassa friulana: una devastazione, nella quale però è rimasto integro lo spirito di italianità della gente.

Gli sviluppi della guerra non consentono di fare previsioni sulla vittoria finale, anche se gli italiani dimostrano l’assoluta certezza di riuscire a ricacciare lo straniero dalle terre contese. In tutte le battaglie finora combattute essi hanno dimostrato un coraggio straordinario e una resistenza al sacrificio ineguagliabile. Nonostante ciò, il generale Cadorna non nasconde il suo scetticismo, espresso anche quando gli alti ufficiali del Comando lo hanno festeggiato per il suo onomastico.

Padre Giovanni Semeria gli ha rivolto l’augurio di festeggiare la stessa ricorrenza insieme con quella della vittoria il prossimo anno nella sua abitazione. «Non facciamoci illusioni – gli ha risposto – che potrebbero riuscire funeste. Tutto quello che possiamo sognare di meglio è di potere fare in pace il Natale del 1916 e ancora non garantisco che ne avremo fino al Natale del 1917». I fatti, per il momento, sembrano dargli ragione, ma non è un merito: penso che toccherebbe a lui più che ad altri diffondere la certezza della vittoria. Staremo a vedere.

Ho deciso di abbandonare per un periodo il rifugio di Villa Italia, dove ogni sera sono andato a raccogliere le notizie che piovevano dal fronte; voglio compiere, come dicono in gergo militare, un sopralluogo dove gli spari sono più forti delle parole e mettono in discussione anche un comandante supremo, il quale, pur non mietendo successi, è convinto che la sua strategia sia la migliore.

Voglio evitare di avvilupparmi nelle polemiche che potrebbero scaturire sul piano militare; i drammi ai quali ho assistito mi inducono a pensare quanto sia rapido il rinnovamento del mondo: tra meno di vent’anni i figli di questi morti si faranno ammazzare in guerra come i loro padri e dopo altri vent’anni la stessa sorte toccherà ai loro figli. Un circuito maledetto. Lo interromperà la nostra vittoria. Forse.

E comunque comincio a chiedermi cosa rimarrà di tante anime perse, chi continuerà a piangerle e a rimpiangerle. Penso, per esempio, a Francesco Giuseppe, il grande imperatore, l’espressione della potenza, il nostro nemico da combattere: è morto a 86 anni, il 21 novembre 1916, dopo una vita che nessuno pensava dovesse presto o tardi interrompersi; invece Cecco Beppe, il grande Cecco Beppe, è finito come tutti gli altri uomini di questo mondo. Ha chiuso gli occhi nel suo letto, il che non fa praticamente differenza con la fine dei suoi e dei nostri uomini rimasti tra le doline, le rocce, le vette: quando l’Europa non sarà più quella di ieri, del grande impero non ci sarà neppure traccia.

Al vertice della potenza austro-ungarica è ora Carlo I d’Asburgo, 29 anni, da tempo designato al trono e ben accetto sia dai militari sia dai civili; tra i religiosi, un ruolo di primaria importanza continua ad averlo il prelato friulano filo-austriaco monsignor Faidutti, confessore personale dell’arciduchessa Maria Gioseffa, madre del nuovo imperatore.

Fonti di solito bene informate sussurrano che Carlo I sarebbe intenzionato a porre fine ai massacri e starebbe ipotizzando un compromesso con la Triplice Intesa: è probabile si tratti più di speranze che di iniziative concrete, però queste voci sono rimbalzate anche nel Governo di Roma, dove i neutralisti hanno ripreso fiato, provocando sconcerto e varie reazioni, sedate dal ministro degli Esteri, Sonnino: al Parlamento riunito ha dichiarato che non può essere presa in considerazione la proposta di avviare trattative di pace avanzata dagli imperi centrali.

Gli ha fatto eco Papa Benedetto XV, il quale ha emesso una sorprendente nota pontificia in cui avanzava proposte concrete per la cessazione delle ostilità. L’iniziativa ha suscitato sconcerto soprattutto in queste terre dove il peso della guerra si sta facendo insopportabile. Il Corriere del Friuli, giornale di ispirazione cattolica, ha pubblicato una riflessione di don Guglielmo Gasparutti che, rifacendosi allo scritto del Papa, praticamente invitava i soldati a deporre le armi. Ne è nato un caso politico-giudiziario: il direttore e l’autore dell’articolo sono stati processati per disfattismo, il giornale prima è stato sospeso dall’autorità giudiziaria e poi soppresso dal Vaticano.

Le manovre politiche non hanno finora avuto alcun effetto sull’evoluzione del conflitto: le battaglie si sono fatte sempre più cruente e gli esiti incerti. Il momento di maggiore entusiasmo gli italiani l’hanno vissuto nell’agosto 1916, quando è stata liberata Gorizia, punto nevralgico delle posizioni austriache: un risultato straordinario per l’Italia, che però ha richiesto centinaia di migliaia di caduti.

Il morale delle truppe ne risente, ciò nonostante l’impegno e i sacrifici non vengono meno, anche se al di là degli infausti eventi bellici altre sconfortanti notizie arrivano ai soldati. Il 27 agosto una spaventosa tragedia è accaduta a Udine, dove in varie zone della frazione di Sant’Osvaldo, sede del manicomio trasformato in ospedale militare e diretto prima dal professor Frugoni e poi dal professor Gino Volpi Ghirardini, sono scoppiati depositi di bombe ed esplosivi destinati al fronte. Un disastro dalle dimensioni e dalle conseguenze di un terremoto.

Un soldato è morto per l’improvviso scoppio di una cassetta di munizioni che stava scaricando, ma qualche giorno dopo, al mattino, alle 11, è accaduta la catastrofe. All’improvviso si è udito un cupo brontolio immediatamente seguito da tuoni e scoppi fragorosi che si espandevano in una vastissima area. Le indagini sulle responsabilità per ora indicano tre ipotesi: un involontario contatto tra il fuoco di una lampada e l’esplosivo, un attentato anarchico, una bomba sganciata da un aereo austriaco visto sparire nel cielo subito dopo il primo scoppio. Sono morti 29 militari e 27 civili, sono rase al suolo un’ottantina di abitazioni e oltre un centinaio, compresi i fabbricati industriali, sono gravemente danneggiate.

Il 1917 è anche l’anno in cui la nostra guerra si riverbera su lontani spazi del mondo. In Russia si è compiuta la rivoluzione che ha portato alla fine degli zar e non si sa ancora se l’alleanza nell’Intesa avrà ripercussioni; per ogni eventualità, gli Stati Uniti sono entrati in guerra contro la Germania; la Francia ha avviato un’offensiva e l’Italia ha trattato con l’Inghilterra lo scambio di rinforzi nel caso in cui l’Austria intensificasse i suoi attacchi.

In primavera il generale Cadorna ha avviato l’ennesima offensiva sull’Isonzo, ma i risultati dei combattimenti si sono alternati: i due schieramenti hanno conquistato e perduto varie posizioni e l’Italia ha subito un collasso di 1400 caduti, 8 mila feriti, 12 mila prigionieri e dispersi. Nella riunione inter-alleata tenutasi a Parigi in luglio, Cadorna ha chiesto 400 cannoni e 10 Divisioni per reintegrare le forze fortemente ridimensionate negli scontri sull’Ortigara, dove abbiamo avuto 3 mila morti, 16 mila feriti e 4 mila dispersi.

Le tante, disparate notizie che vado raccogliendo dagli ufficiali amici a Villa Italia o al Dorta ogni sera mi confermano l’opportunità di trasferirmi sulla linea di fuoco più significativa per gli sviluppi ipotizzabili. Andrò a Cividale, perché circolano voci secondo cui gli austriaci punterebbero sulla Val Natisone per penetrare nel nostro territorio attraverso il cuneo di Caporetto.

La decisione sarebbe stata presa personalmente dal giovane imperatore Carlo I: non ha avuto successo con i propositi di armistizio e ha trovato accordi con la Germania per infliggere un colpo decisivo all’Italia. Ne è informato anche il generale Cadorna, il quale ha consegnato ai comandanti della seconda e terza armata una nota per informarli di avere deciso «la rinuncia alla progettata operazione offensiva e di concretare ogni attività nelle predisposizioni per la difesa ad oltranza, affinché il possibile attacco ci trovi validamente preparati a rintuzzarlo».

È la prima volta che colgo nel pensiero e nelle parole di Cadorna un segno di misurato timore di fronte a un’ipotetica azione del nemico. Non è un incoraggiante viatico. Voglio vedere dove condurrà.

(14. Continua )

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