L’imperatrice che obbligò i nobili a pagare le tasse

di LUCIANO SANTIN
Nel 1717 l’arciduca Eugenio di Savoia, guida l’esercito austriaco alla conquista di Belgrado, costringendo alla pace i Turchi che pochi lustri prima avevano assediato Vienna. Lo stesso anno vede la luce Maria Teresa d’Austria, destinata a regnare a lungo sui possedimenti asburgici. Renascens spes orbis enuncia la moneta coniata in suo onore, un auspicio cui la sovrana, il cui tricentenario l’Europa si accinge quest’anno a ricordare, tenne fede nei fatti.
Il padre Carlo VI, privo di figli maschi, con la Prammatica sanzione aveva infranto l’ultramillenaria legge salica, attribuendo la successione asburgica anche in linea femminile. Per Maria Teresa questo fu un elemento di debolezza, su cui giocarono molti principi europei («Non c’era uno solo dei miei regni che non mi fosse contestato», ricorderà), costringendola ad appoggiarsi formalmente a figure maschili. Prima con la coreggenza del marito Francesco Stefano di Lorena, che però interferì poco con gli affari della corona, poi, dopo la vedovanza, associando al trono il figlio Giuseppe II, con il quale invece sorsero dei dissidi.
Nei suoi quarant’anni di regno, dal 1740 al 1780, pur costretta ripetutamente alla guerra, venne detta “imperatrice della pace” (il titolo di imperatrice non le spettava, ma, promanato dalla vox populi, ancora permane). Stimava infatti «meglio una pace mediocre di una guerra gloriosa», e tentò di creare una rete di alleanze facendo sposare alcuni figli (ne ebbe sedici) ad altre teste coronate. La scelta le valse il titolo di “suocera d’Europa”, ma non funzionò e per Maria Antonietta, sposa al delfino di Francia, finì in modo tragico. Nelle memorie Maria Teresa, cui fu risparmiato il dolore di vedere la figlia sul patibolo, scrisse: «Per quanto amore abbia avuto per la mia famiglia e i miei bambini... li ho sempre posposti al bene generale dei miei Paesi perché ero persuasa in coscienza che tale era il mio dovere e che la loro prosperità esigeva che io fossi la loro prima e comune madre».
Il suo assolutismo illuminato, improntato a una sincera maternalità e a un pragmatismo tutto femminile, assicurò a un’Austria ancora semimedioevale i primi tratti della modernità. Ad aiutarla fu la scelta felice dei collaboratori di cui si circondò: Emanuel de Silva Tarouca, Johann Christoph von Bartenstein, Friedrich Wilhelm Haugwitz, Leopold Joseph Daun, Rudolf von Chotek, Anton Kaunitz, Gerard van Swieten non furono compiacenti yesmen, ma, come notò Maria Teresa «uomini capaci di dirmi la verità senza tanti giri di parole e ai quali anch’io potevo aprire il cuore senza riserve».
Con il loro aiuto la Landesmutter centralizzò potentemente lo Stato. Tolse all’aristocrazia la riscossione delle tasse assoggettandola al pagamento delle stesse (assieme al clero) e organizzando la rilevazione e l’assoggettamento tributario delle proprietà terriere tramite il catasto, ancor oggi in vigore nell’Italia ex asburgica. Con il Robotpatent limitò le corvée che costringevano i contadini a due mesi di lavoro gratuito per i latifondisti, affrancandoli da una condizione che . proibiva spostamenti e matrimoni senza il consenso dei latifondisti.
Riformò l’esercito (assegnando quote di coscritti ai diversi circondari e creando un’accademia e una nobiltà militare), come il diritto: secondo il suo motto Iustitia et clementia l’imponente Codex Theresianum, peraltro mai entrato in vigore, frenava la tortura e le pene capitali. Dei delitti e delle pene, del resto, fu scritto da Cesare Beccaria in quella Milano teresiana che vide sorgere anche la Scala, Brera, il Palazzo reale.
Maria Teresa aiutò l’agricoltura, base dell’economia austriaca, favorendo la colonizzazione di plaghe ancora non sfruttate, con sussidi, assegnazioni di case, animali, sementi e capitali da restituire ratealmente (nel Banato vennero realizzate 5359 fattorie modello, ampliati 29 insediamenti, impostati 31 villaggi). Ma sostenne anche la gracile industria manifatturiera, con interventi statali accoppiati al liberismo, all’eliminazione dei dazi interni, e a un mercantilismo che vide nel Porto franco di Trieste uno snodo fondamentale.
La sovrana rese obbligatoria ex lege l’istruzione primaria maschile e femminile sino ai 12 anni. Pur devotissima (assisteva quotidianamente alla messa), limitò l’ingerenza ecclesiastica negli affari dello stato: quando Clemente XIV sciolse i Gesuiti, ne incamerò i beni, e proibì i voti definitivi (ovvero le monacazioni forzate) prima del ventiquattresimo anno di età.
Rilevanti furono anche gli interventi in campo sanitario, con l’istituzione di strutture e presidi (specie in ostetricia, per combattere le tante morti perinatali), la creazione del “visitatore dei morti” (ovvero l’anatomopatologo, che indagasse l’eziologia dei decessi) e la vaccinazione contro il vaiolo, fatta sui suoi stessi figli (e prima degli studi di Edward Jenner).
Quando nel 1740 si spense, rifiutando la sedazione («Voglio incontrare Dio a occhi aperti», disse), anche gli avversari ideologici o militari le resero omaggio, confermando quanto aveva malvolentieri ammesso Federico di Prussia, l’“uomo malvagio”, suo avversario storico: «Oggi gli Asburgo hanno un vero uomo, e quest’uomo è una donna».
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