I bambini di legno e la memoria scolpita: l'arte libera di Franco Maschio

Tra le vie dei borghi friulani, le sculture vivono all’aperto come monelli randagi, testimoni di un’infanzia eterna e di una memoria che si fa speranza: dall’Orcolat alla rinascita, il racconto di un artista e della sua poesia scolpita.

Angelo Floramo

Sono prevalentemente bambini. Si arrampicano sui muri, si nascondono a malapena oltre gli angoli delle case, più per la voglia di farsi scoprire che per impacciata imperizia. Li vedi all’improvviso, con la coda dell’occhio, dal momento che sbucano sempre all’ultimo minuto, quando ormai la sorpresa gli è riuscita, e la meraviglia ti ha già sopraffatto il cuore. Franco Maschio è un artista di strada, nel senso più nobile del termine. Perché le figure che scolpisce dentro al legno o alla pietra, rubandone l’anima fanciulla, sembrano proprio pensate per condividere la vita di chi per strada ci passa ogni giorno: per andare a scuola o al lavoro, a fare la spesa o in farmacia. O anche soltanto per godersi quattro passi senza fretta, nel labirinto dei marciapiedi.

Le sue opere si confondono con tutte le altre forme che insieme allacciano i nodi dei paesaggi urbani, quelli che rendono riconoscibili i nostri borghi e i nostri paesi e ai quali, ormai, ci siamo abituati. Ne diventano parte, anzi, come se lì, dove l’Autore le ha messe, ci fossero sempre state, come il pozzo, la panchina o la fontana. Sono convinto che quei monelli indisciplinati che gli scappano tra le dita, a colpi di scalpello, non amerebbero mai e poi mai restare chiusi dentro una galleria, in esposizione, o peggio nelle sale malinconicamente solitarie di un museo. Perché amano la pioggia e i baci del sole, il rigore dell’inverno e le seduzioni della primavera.

Sognano - ne sono sicuro! - sotto i cieli stellati, e forse prendono anche vita, quando noi dormiamo o non li vediamo. Anzi, le stagioni, nel loro lento avvicendarsi, ne aggiustano le forme: aggiungono schegge e crepe, ne dilavano i colori, continuano nel tempo il lavoro del loro Autore. Che ne è ben consapevole, altrimenti non li lascerebbe andare a zonzo per il mondo, così alla buona, senza nemmeno una pensilina che li protegga. Randagi, senza padrone. Sono stati creati così, scapigliati e insolenti, liberi di perdersi in giochi da cortile, come accadeva anche a noi in un tempo che ci pare remoto e ormai lontanissimo, quando la vita – che ancora non era stata imprigionata dal demone degli schermi! - respirava semplicemente, ma a pieni polmoni, a suon di corse a perdifiato, tra un rubar di ciliegie e una sassaiola innocente di bande rivali.

C’è ancora chi se lo ricorda? Lo so, c’è sempre il critico inacidito che storce il naso e ci ricorda che l’Arte, quella vera, è un’altra cosa. Ma cosa? Tormento ed estasi? Inquieta investigazione degli umori? Slancio sublime verso l’Assoluto? Sicuramente sì. Ma anche tutto il resto: la poesia e la tenerezza che sbocciano dalle cose più semplici, come un ciocco di abete rubato alla legnaia o un sasso trovato nel greto di un fiume, la semplicità di un abbraccio che zampilla dal ricordo, quello che non ci ha mai lasciati del tutto e si fa stupore. Qualsiasi cosa possa regalare il riverbero di un’emozione è Arte. Perché capace di renderti partecipe di quelle vibrazioni che non ti aspetteresti mai di sentire, eppure risuonano, da qualche parte, e parlano anche di te.

Ma se dovessi proprio indicare un’opera di Franco Maschio che mi commuove profondamente ogni volta che i miei sensi la intercettano, allora dovrei parlare di quell’enorme tronco di cedro del Libano, vecchio di trecentocinquant’anni, che le mani dell’artista hanno trasformato in un canto di speranza, di rinascita e di resurrezione.

Era il 1996 quando ne accarezzò le venature, a vent’anni dall’Orcolat che sgretolò la vita del Friuli e dei friulani. Una folla di uomini, donne, vecchi, bambini, che protendono le loro mani in alto, verso il Cielo. La modernità dei tratti si intreccia oggi alle linee sublimi e severe del Duomo di Venzone, simbolo potente e fortissimo della Ricostruzione. In certe giornate di luce, quella folla di anime scavate dentro al legno proietta la sua ombra sul muro. I morti rivivono, anche solo per un veloce lampo di memoria. Un sogno che si è fatto Verità: “De profundis ad te Domine…”

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