L’esercito italiano e la giustizia sommaria una verità dimenticata

La Grande Guerra è costellata di fucilazioni anche di civili La circolare Cadorna: «In faccia al nemico onore o morte»
Di Luciano Santin

di LUCIANO SANTIN

Parlare di martiri di Cercivento non è fuori luogo. L’etimo, si sa, sta a significare “testimoni”, e Corradazzi, Massaro, Matiz e Ortis, i quattro alpini friulani passati per le armi il primo luglio del 1916, rendono davvero testimonianza di quelli che furono gli orrori di una guerra, che fu poi circonfusa da un alone di gloria e leggenda che ne nascose il lato piú oscuro.

Servono anche da esempio, i ragazzi del “Monte Arvenis”, perché la giustizia sommaria, nell'esercito italiano, fu più regola che eccezione. Ne parla un bel volume degli storici genovesi Marco Pluviano e Irene Guerrini “Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale”, pubblicato dall’editore udinese Gaspari, tempo addietro (talché sarebbe opportuna una ristampa), e letteralmente costellato di fatti che fanno il controcanto all’epico oleografismo storiografico della Grande Guerra, rivelando il triste record dei “giustiziati” detenuto dall’esercito dei Savoia.

Giugno 1917: il colonnello De Negri, comandante della brigata Mantova, si confida con Angelo Gatti, storico ufficiale del Comando supremo: «Ormai le truppe vanno avanti soltanto perché c’è la fucilazione».

Pochi mesi dopo l’esercito italiano è in rotta, e la musa popolare canta: «Ponte Priula l’è un Piave streto / i copa quei che vien de Caporeto / Ponte Priula l’è un Piave nero, tuta la grave l’è un zimitero».

Senza esito lo sgomento del vescovo di Treviso Andrea Longhin davanti alla fucilazione di 13 soldati («Se i tedeschi saranno come questi nostri sciagurati italiani, che cosa ci resterà? Qui si fucila senza pietà: preghiamo, preghiamo», scrive al prevosto di Montebelluna): tre giorni dopo altri 22 vengono passati per le armi.

È un’ordalia di esecuzioni sul posto, e domina la scena Andrea Graziani, che gira su una camionetta con plotone d’esecuzione al seguito. Ugo Ojetti ne parlerà come di «quel pazzo... destinato alla pulizia e fucilazione delle retrovie».

Tra i casi legati al suo nome, quello eclatante, e approdato anche in Parlamento, riguardante l’esecuzione di Antonio Ruffini, ventitreenne artigliere di Castelfidardo.

A Noventa, mentre il generale sta passando, questi lo saluta senza togliere la pipa di bocca. Viene, per questo ripetutamente e violentemente colpito da Graziani (uso ad adoperare il suo bastone, fino a fratturare le ossa dei sottoposti), sinché un borghese interviene osservando: «Non è il modo di trattare i nostri soldati»

«Dei soldati io faccio quello che mi piace», grida infuriato Graziani e ordina l’immediata fucilazione del giovane.

Graziani, «uomo di ammirevole energia, che nominato ispettore generale delle retrovie, è riuscito in poco tempo a ristabilire l’ordine nelle strade», secondo il resoconto di Rino Alessi (amico personale di Mussolini e poi direttore de Il Piccolo), causa lo scalpore suscitato si trovò costretto a difendersi.

Definí l’atteggiamento del Ruffini un chiaro segno di sfida, che, lasciato impunito, avrebbe influito negativamente sul morale della truppa. Gli venne data ragione.

Qualche anno dopo, Graziani, divenuto capo della Milizia volontaria per . la sicurezza dello stato fascista, fu ritrovato morto in circostanze oscure.

Pluviano e Guerrini ripercorrono sui documenti il feroce rigore dello Stato italiano, a partire degli ordini diramati ben prima di Caporetto. «Ho approvato che nei reparti che sciaguratamente si macchiarono di grave onta, alcuni, colpevoli o non, fossero immediatamente passati per le armi», scrive Emanuele Filiberto di Savoia, comandante della III Armata.

Cadorna, dal canto suo, raccomanda «severa repressione e salutare esemplarità», aggiungendo: «Ogni soldato deve essere convinto che il superiore ha il sacro potere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi».

Il passaggio forse piú significativo - annotano Pluviano e Guerrini - è quello della circolare 28/9/1915, che cosí recita: «Nessuno deve ignorare che in faccia al nemico una sola via è aperta a tutti: la via dell’onore, quella che porta alla vittoria od alla morte sulle linee avversarie; ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto - prima che si infami - dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti, da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell’ufficiale».

Il messaggio ai soldati è chiaro: se avanzerete forse potrete salvarvi dalle pallottole austriache, altrimenti non avrete scampo da quelle italiane.

Si registrano cosí situazioni come quella del romano Paolo De Franceschi e del veneto Giovanni Sbaragli, che a San Vito al Tagliamento, richiesti, aiutano l’ufficiale Cesare De Lollis a trasportare la cassetta d’ordinanza al comando dell’XI corpo d’armata, e vengono fucilati perché “sbandati”.

Nell’ampia casistica, le fucilazioni non toccano solo i militari. Memorabile la decimazione di Villesse, dove per errore i soldati italiani si sparano tra loro. Pensando a un atto di resistenza i comandi fanno fucilare alcuni paesani, tra cui Severino Portelli, segretario comunale di Sagrado, irredentista fervente, che invano proclama, piangendo, la fede italiana e la piena innocenza.

Il soldato Francesco Giuliani, presente al fatto, compose una poesia: «Dal reggimento, il terzo battaglione / passò a Villesse, un paese vicino / qui senza colpa e contro ogni ragione / vi fucilaron piú d’un cittadino / per opra di un maggior, come Nerone, / spietato, empio, feroce e assassino. / Non si placò, quell’alma inferocita, /con le preghiere, coi pianti e i lamenti, /che a chi volle fè togliere la vita».

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