«Le storie sono di tutte: arabe europee, cristiane e musulmane»

Una cosa va detta, In between è un film bello, intenso, con tre bravissime attrici che fa arrabbiare. Tanto. «Sarà – confida la regista Maysaloun Hamud, – che siamo donne. Riguarda tutte». Sarà che...
Di Fabiana Dallavalle

Una cosa va detta, In between è un film bello, intenso, con tre bravissime attrici che fa arrabbiare. Tanto. «Sarà – confida la regista Maysaloun Hamud, – che siamo donne. Riguarda tutte». Sarà che la prepotenza del maschio non ha colore, né paese, né lingua. É ovunque. Il cuore del film – svela - è l’universalità del tema trattato. Le storie raccontate sono di tutte: arabe e europee, cristiane e musulmane.

Maysaloun Hamud, raggiunta telefonicamente prima del suo arrivo al Cinemazero e al Visionario previsto per stasera ha costruito indubbiamente un film scomodo, che cancella molti stereotipi. «La risposta al patriarcato, l’unica possibilità di fare un passo avanti, verso l’indipendenza femminile e il rispetto, in Palestina e ovunque è la sorellanza. Noi donne viviamo pressioni di diverso tipo, socialmente e nel privato». In between (in Italia tradotto con Libere, disobbedienti, innamorate è distribuito dalla Tucker film), racconta la storia di tre donne molto diverse, (Mouna Hawa, Sana Ammelieh, Shaden Kamboura), tre arabe, un avvocato, una studentessa e una dj omosessuale, che vivono e amano a Tel Aviv. «Ho cercato di raccontare il complicato dualismo della loro quotidianità, stretto fra la tradizione da cui provengono e la sregolatezza della metropoli in cui abitano e il prezzo che devono pagare per una condizione che normalmente può apparire scontata: la libertà di lavorare, fare festa, fare sesso, scegliere». Laila, Salma e Nour scelgono, appunto, di non voltarsi a guardare indietro, anche se il loro viaggio prevede in finale braccia e mani femminili per rammendare le ferite inferte dai maschi, che sono padri, fidanzati, uomini fintamente evoluti o dichiaratamente bigotti. Ma davvero sono tutti così? «Non voglio generalizzare, ma senz’altro il mio è un racconto realistico. Non è storia passata, ma il nostro presente. La mia generazione non può convivere ancora a lungo con i codici obsoleti della società patriarcale e del maschilismo: è tempo di mettere le carte in tavola. Se continuiamo a nascondere le nostre paure sotto il tappeto, finiremo per inciamparci sopra e sarà troppo tardi». Maysaloun Hamud, nata a Budapest, ma cresciuta in un villaggio a nord di Israele, laurea alla Minshar Film School, ha poi vissuto a Jaffa. Libere, disobbedienti e innamorate è il suo primo lungometraggio, già premiato dalla critica, dopo i corti Shades of Light (2009), Scent of Morning (2010) e Salma (2012). Dio, chiediamo ancora, viene continuamente nominato nelle conversazioni tra i protagonisti. Noi occidentali non ci siamo abituati. La mancanza di laicità dello Stato, è questo il problema, nel vostro Paese? «Non è un film sulla religione. Non cito nessuna religione, solo usi e costumi. Il film ha suscitato molto scalpore perché va dritto al punto». Ciò che rende il film così diverso è, senza dubbio, il ritratto delle protagoniste: tre ragazze forti, moderne, sessualmente attive, che vivono lontano dalle proprie famiglie e dal peso della tradizione, lottando ogni giorno per essere se stesse. Eppure per tutte e tre il prezzo da pagare è alto. Per una di loro la fuga è la sola chance. Davvero l’Europa è l’unica risposta? «É uno spazio possibile, ma non è una soluzione».

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