Le scarpe in mano Un corpo riaffiora nella fredda laguna

Suonò il campanello una seconda volta, aspettò. Prese le chiavi dal borsello ed entrò.
Come si fa per le case che si impara a conoscere, cercò con lo sguardo l’orologio: lo trovò in alto, allineato alla televisione. Calcolò quanto tempo poteva rimanergli e aprì il rubinetto dell’acqua calda, per riempire il lavandino. Osservò l’ombra di rossetto, su uno dei bicchieri, e sorrise, prima di strofinare energicamente. Lavare i piatti gli dava un senso di pace, ma non quella volta. Quando ebbe finito, si diresse verso il ripostiglio.
Uscì di casa con una borsa di plastica, gettando un occhio alla cassetta della posta, vuota.
La marea stava salendo, lungo la pista ciclabile che costeggiava la laguna. Il reflusso delle fogne fuggiva spaventato per qualche ora e il piccolo promontorio, ingabbiato da un rettangolo di cemento annerito, sembrava quasi un luogo gradevole, con i gabbiani a tuffare il becco nell'acqua bassa e l’imbrunire che indossava l’abito da sera. Angelica lo aspettava sull’unica panchina, con le cuffie nascoste dal capelli castani e le palpebre chiuse sopra gli occhi verdi. Lo sentì arrivare, alle spalle, ansimando; rabbrividì, ma non si voltò. Giorgio si tolse la maglietta, asciugandosi il sudore. Sarebbero andati fino a casa di lei passeggiando e ne avrebbe indossata un’altra, per tornare al suo monolocale stagionale. Mentre l’abbracciava pensò a quella piccola abitudine conquistata e ne gioì. Un tempo vedeva in ogni consuetudine una tomba da cui fuggire, adesso se ne scopriva appagato e bisognoso.
«Ciao», sussurrò Angelica.
Tremava un po’, e lui l’invitò ad alzarsi, stringendole le mani.
Si abbracciarono e incamminarono lungo il bordo in cemento. Non c’era nessuno, a quell’ora. Lignano, a fine settembre, si è già scrollata di dosso cocktail e amori passeggeri e solo pochi, come loro, rimanevano a godersi le ombre lunghissime, difendendosi dalle ultime zanzare.
Svoltarono l’angolo, mentre il cigolio delle scarpe di lei si mescolava al crepitare della schiuma, rimasta sugli scogli per qualche attimo, prima d’essere di nuovo sommersa. Giorgio aveva una domanda in gola, da giorni. Una domanda sciocca, forse, ma che in ogni caso lo spaventava. Perché sì, si vedevano da mesi, facevano l’amore, si tenevano per mano… ma quella domanda non se ne voleva andare.
Giorgio si voltò, dando le spalle al mare, mentre la brezza scivolava dalla schiena nuda ai suoi capelli neri, scavalcando gli avambracci di Angelica.
«Ma noi, stiamo insieme?»
Lo chiese all’improvviso, quasi pentendosene, ma lo chiese.
Lei non rispose. Lui percepì il suo aprire gli occhi, con le ciglia a sfiorargli il collo. Poi, all’improvviso, si sentì spingere via, mentre lei spalancava la bocca, e gli occhi, indicando la laguna e lanciando un grido, fortissimo. Giorgio si girò, d’istinto. E vide. E capì.
«Si muove!», gridò lei, con una voce rotta dal terrore.
Ma il corpo che a pochi metri da loro sbatteva sugli scogli, nella penombra, emergendo dai flutti solo con la schiena, non si muoveva. Giorgiò imprecò e gridò a sua volta, poi cominciò a correre, per scendere in acqua ed aiutarlo, anche se quell’uomo, senza dubbio, ormai era annegato.
«Andiamo. Guido io, brigadiere».
«Ma guardi che non serve, si figuri. Dovrà ancora sistemare le valigie…»
Il carabiniere guardò l’ispettore, speranzoso. In verità non lo voleva tra le palle, il nuovo capo. Dicevano fosse un pignolo sui verbali, e poi… sì, insomma, non si poteva vedere, un carabiniere così, pensò il brigadier Pintozzi, guardando l’Ispettore Capo Ciro Dalmar.
L’altro ne era conscio. Il primo giorno, in un italiano impeccabile, aveva spiegato che suo padre aveva la fissa dell’integrazione, e per questo l’aveva chiamato Ciro, ma Dalmar era un cognome della sua terra, dove lui, però, non era mai stato.
«Preferisco venire di persona», gli stava dicendo ora, mentre lui gettava uno sguardo disperato ai due colleghi, rimasti dietro la scrivania.
«Però…» disse uno dei due, una volta rimasti soli, «al è propit neri, eh!»
«Ma di dulà isal?»
«Afriche, ve! A pene plui jù dal Pintozzi… no viotu cemût che lu à cjapât in simpatie!» Ma la risata, copiosa, si interruppe di colpo.
«Ho dimenticato le chiavi», li gelò Dalmar, rientrando, «in che lingua stavate parlando?»
«F-friulano», balbettò uno dei due, «Scusi».
«E di che», rispose l’ispettore, fissandoli con un sorriso bianchissimo, in mezzo alla pelle nera. «E comunque… il Ghana è parecchio più a sud, di dove sta Pintozzi».
Il lampeggiante azzurro riverberava sulla laguna, sciolto negli ultimi bagliori vermigli. Vicino all’ambulanza si era raccolto un gruppetto di curiosi.
«Aspettavamo lei, ispettore, se vuole dare un’occhiata, facciamo subito portar via il corpo. L’abbiamo già identificato».
Dalmar guardò il cadavere, che era stato avvicinato a riva e voltato. Il viso era gonfio, ma ricoscibile. Cominciò a scendere in acqua, con gli stivali addosso, sotto lo sguardo allibito del collega.
«Vada pure avanti, l’ascolto», disse.
«È Luciano Trevisan, il gestore di un tabacchino sulla via centrale. Abbiamo trovato la bici, più avanti. Probabilmente è scivolato, o gli sarà venuto un malore, ha una bella botta in testa; poi la marea deve averlo trascinato». Dalmar ascoltò, mentre con una una pila scrutava il cadavere.
«Ci sono i due ragazzi che hanno trovato il corpo, laggiù, che aspettano. Li abbiamo già sentiti. Li manderei a casa, se è d’accordo».
«Abbiamo un problema».
La voce venne da sotto, piatta e severa.
«Guardi qua».
Il carabiniere si affacciò e osservo il collo illuminato del defunto.
«C’è un segno scuro, geometrico… vede? Faccia chiamare il medico legale. Sarà una disgrazia, ma meglio essere cauti. Quei due là che vengano domattina in comando».
L’appuntato andò a eseguire gli ordini, mentre Dalmar, riflettendo ad alta voce, risaliva gli scogli, proprio vicino a Giorgio, che lo guardò perplesso.
La mattina seguente, l’ispettore si fece odiare da tutti. Non pronunciò la parola omicidio, ma nella morte di Luciano Trevisan, di anni sessanta, per annegamento, con un colpo sulla nuca causato dagli scogli, c’era qualcosa che non quadrava.
La sorella, unica parente, era già stata avvertita, ma l’ispettore, oltre all’autopsia, aveva richiesto i tabulati telefonici, l’accesso alla mail e a facebook; aveva fatto sequestrare il portatile e ordinato un elenco di chi aveva lavorato per lui, tutte ragazze.
«È chiaro?» aveva chiesto alla fine, guardando una mezza dozzina di facce perplesse.
Il brigadier Pintozzi alzò la mano, timidamente.
«Dica».
«Ci sarebbero quei due… Aspettano da quasi un'ora».
«Li interroghi lei, Pintozzi. Gli chieda se conoscevano il Trevisan e poi li mandi via, ché abbiamo parecchio da fare».
Il brigadiere uscì dall’ufficio con un sorriso furbetto.
«Ecco… Scusateci per l’attesa», disse avvicinandosi ai Giorgio e Angelica. «Dovete solo firmare la testimonianza di ieri e potete andare. Non abbiamo altre domande da farvi».
Giorgio stava per protestare, infastidito, ma la ragazza lo trattenne. Il brigadiere li accompagnò fuori, gentilissimo, e poi corse a nascondersi nel bar più vicino al comando.
Non si parlarono per un po’ e, senza pensarci, finirono sul lungomare.
Fu Angelica a rompere il silenzio. «C’è qualcosa che non va, vero? O stai aspettando la risposta alla domanda di ieri?»
Giorgio si tolse le scarpe e, tenendone una per mano, meditabondo, giocò a saltare le onde, staccandosi così da lei. Ne aveva di domande, sì. Perché le persone reagiscono in modo diverso nei momenti di difficoltà, ma mentre lui era corso a salvare quel poveretto, lei era rimasta immobile, terrorizzata dal fatto che si muovesse ancora.
Giorgio, in quel momento, sapeva che il suo tenere le scarpe in mano era solo una scusa per starle a distanza… Ma di che razza di persona mi sto innamorando? Continuava ossessivamente a chiedersi.
Alzò gli occhi, deciso a confidarle i suoi dubbi, ma quando la guardò ammutolì di nuovo.
«Senti, ti va di pranzare da me? Meglio se parliamo un po’», lo anticipò lei, togliendolo dall’imbarazzo.
Come sperava, il Trevisan aveva salvato le password ed era bastato. Messaggi, battutine, ammiccamenti… era uno sporcaccione che ci provava sempre e non esitava a farsi perdonare, e soddisfare anche, con biglietti da cento e ricariche telefoniche.
Il medico legale gli aveva appena confermato l’inevitabile morte per annegamento. La botta lo aveva tramortito. Potevano avergli tenuto giù la testa? Possibile, ma indimostrabile. Davanti al file di word con il verbale, Dalmar immaginò un’indagine lunga, complessa e inutile. «Oppure brevissima», disse premendo il tasto Canc, dopo aver selezionato un paio di righe.
«Guardavo il tramonto, con il volume alto. È arrivato da dietro e mi ha messo le mani sulle tette».
Giorgio provò qualcosa che non seppe dire, a quelle parole così secche, crude, inattese. Una sorta di furore che non poteva trovare sbocco e scemò, confuso dalle frasi che seguirono.
«Poi non so nemmeno io cos’è successo. Mi sono divincolata, è caduto e quando sono scappata l’ho lasciato lì, con la faccia sott’acqua. Ero scesa in acqua, ma non per aiutarlo. Lo odiavo da quando ho lavorato nel suo tabacchino».
Giorgio la fissava, sconvolto.
«E la risposta», continuò lei, «è sì. Stiamo insieme. Almeno fino ad adesso. Ora decidi tu, se vuoi starmi vicino ancora. Hai le chiavi, se non le vuoi più buttamele nella cassetta della posta».
Dalmar aveva appena stampato, quando bussarono. Pintozzi si affacciò impacciato. «Ispettore, la ragazza che ha trovato il corpo del Trevisan dice che ci sono cose che non ci ha detto».
Ci mise un attimo, Giorgio, a trovare ciò che cercava. Aveva sentito con chiarezza quel carabiniere di colore parlare del segno di una scarpa, sul collo del morto, e lui ricordava benissimo quelle di Angelica, che cigolavano. Le ritrovò ancora umide e le infilò nella borsa. Le avrebbe buttate da qualche parte, tornando a casa. Non aveva idea di quel che le sarebbe accaduto, ma non gli importava. Anche se aveva delle scarpe in mano, non stava scappando.
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