La Udine operaia che non c’è più nel docufilm su Bertoli e Safau
La pellicola racconta vite, fatiche e sudore accanto ai camini delle due aziende siderurgiche. Sino alla metà degli anni ’70 alla periferia del capoluogo sorgevano molte grandi industrie

La presentazione del film documentario “L’acciaio dentro”, vite, fatiche, sudore accanto al camino della Safau” diventa occasione per ricordare quella Udine operaia che oggi non esiste più. Alle nuove generazioni potrà sembrare strano, quasi impossibile pensare a questa città come un luogo dove le fabbriche sorgevano a decine. Siamo da tempo abituati ad identificare il capoluogo friulano con il settore terziario, come sede unicamente di commerci e servizi, creando l’immagine di una città bottegaia e piccolo borghese.
Ma non è stato sempre così e sino alla metà degli anni ’70, bastava percorrere la mattina le strade della periferia per accorgersi di quante tute blu in bicicletta o in motorino si recavano al lavoro. Si mescolavano agli studenti del centro studi quelle del birrificio Dormisch, della Romanut, fabbrica di macchine da caffè, della Solari, più avanti con le donne del Cotonificio Udinese. In via Tricesimo iniziava la fila dei capannoni della cosiddetta Zona Nord, condivisa con Tavagnacco, dove le piccole fonderie si mescolavano alle industrie del legno, alla piccola carpenteria meccanica. La Burelli, l’Albor, la Metallurgica Friulana, la Pilosio, la Pozzo, la Tami e Petrei e tante altre che costituivano la testa di ponte verso i mobilifici di Tricesimo e Reana.
Nel perimetro urbano sorgevano poi la Moretti, la Maddalena, quella dei contatori d’acqua, la Fontanini. Ma sono indubbiamente la Bertoli e la Safau a rappresentare, per numero di occupati, per importanza delle produzioni e per potenza economica, la sintesi di questa presenza operaia e come tali sono rimaste nella nostra memoria collettiva, accomunate, nel presente, da una proprietà e una dirigenza, ma mai così distanti, nel passato, per le caratteristiche dei propri lavoratori.
È forse troppo facile, anche se corrisponde al vero accostare, la figura dell’operaio della Safau al mondo contadino friulano, accollandogli così la definizione di metal-mezzadro, mentre per chi lavorava alla Bertoli, valeva il manifesto da realismo socialista, del proletario che marcia vittorioso verso un radioso futuro. Non era proprio così, perché anche alla Bertoli, finito il turno, avevano la vigna e il campo a cui badare, mentre corrisponde a verità una coscienza di classe ben radicata e una maggiore politicizzazione negli stabilimenti sulla Pontebbana. La stima di cui godevano gli operai più anziani, di cui molti provenivano dalle file della Resistenza, era tale che nelle nuove generazioni equazione operaio-comunista apparisse quasi naturale, come conseguente fosse anche una forte sindacalizzazione.
La fotografia dei vecchi ingressi delle due fabbriche potrebbe rappresentare simbolicamente la differenza tra le due situazioni: alla Bertoli un grande piazzale che da direttamente sulla strada, alla Safau, una svolta improvvisa di via Marsala, porta nella stretta e buia via Milazzo, una strada senza uscita proprio perché chiusa dalle guardiole della Safau. Ricordo ancora lo sguardo di chi entrava per i turni o per il giornaliero: tristi, mai una battuta a chi diffondeva i volantini, in silenzio verso un luogo che non sentivano loro.
Roberto Muradore, alla Safau si è fatto le ossa per diventare quel sindacalista Cisl che tutti conosciamo. Per lui la situazione era cambiata negli ultimi anni, prima i Consigli di fabbrica, l’unità dei metalmeccanici grazie all’Flm: come se la solidarietà e la consapevolezza di essere classe operaia fosse riuscita a far breccia in quel muro di rassegnazione sinora registrato. E che avesse ragione lo dimostrarono le manifestazioni, gli scioperi degli anni successivi per evitare la chiusura dello stabilimento, culminati con la messa celebrata dal vescovo Battisti nella sala mensa di Cargnacco, dove ormai si era trasferita la produzione.
«Ho saldamente fissa nella mia memoria la Pasqua di quaranta anni fa. Una Pasqua passata dentro la Safau – scrisse nel 2021– , una marea di persone, quasi tutti lavoratori Safau con i propri familiari. L’Arcivescovo di Udine tenne una lezione di Dottrina Sociale della Chiesa. Con parole intense e vibranti si pose a fianco dei lavoratori e delle loro famiglie e invitò i responsabili aziendali, i sindacalisti, gli amministratori locali e i politici a ricercare insieme una soluzione che consentisse la continuità produttiva e occupazionale. Tutti i lavoratori, credenti e no, si sentirono meno soli e quanti esercitavano un ruolo ancor più convinti, motivati e responsabilizzati nel loro impegno. Era riuscito a ravvivare ciò che stava per spegnersi: la speranza. La vicenda Safau durò sette lunghi anni e si risolse positivamente, a differenza di altre crisi verificatesi in Friuli e concluse malamente».
Sul ruolo della classe operaia, sin da quando a 17 anni entrò alla Bertoli, non ha mai avuto dubbi Gino Dorigo, altro noto sindacalista della Cgil, alla testa di quell’autunno caldo che vide non solo le rivendicazioni salariali, ma i lavoratori come elemento centrale di ogni progresso civile sociale.
La politica sembrava assecondare questa ondata di rinnovamento, il terremoto e la ricostruzione, il modello Friuli corrispondevano a questi intenti e lo stesso rapporto sindacati, partiti, politica ne rappresentava la traduzione pratica. Non era stato forse detto “Prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese”, dando proprio la priorità alle prime. Non andò così, difficile resistere al progressivo processo di deindustrializzazione, delocalizzazione, ma anche alla scelta di investire nel settore finanziario e non in quello produttivo da parte di molti imprenditori locali. E pure il Pci, di cui tanti operai della Bertoli avevano la tessera, stava cambiando: «Quella era un’altra cultura – ha spesso spiegato Dorigo – c’era un rapporto democratico attraverso il quale sono state tenute assieme masse e organizzazioni di massa, come il sindacato. Ora invece i partiti sono comitati elettorali, strutture liquide, che oggi vanno e domani vengono».
Le fabbriche a Udine invece non hanno questo movimento ondivago: una volta andate non sono più tornate. Ne restano le vestigia, sostantivo che vale la pena usare quando si parla di archeologia industriale e, come tali, varrebbe la pena pensare, come ha fatto il Fai nelle sue giornate con ex Safau, ad una loro maggior tutela e conoscenza. Perché ricordare la Udine operaia non è solo esercizio di memoria storica, ma elemento, dato analitico per chi voglia disegnare il futuro della nostra città.
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