«La rivolta armata non tornerà, ma attenti al clima di violenza»

Ventiquattro gennaio 1966, 24 dicembre 1988. Due date come alfa e omega di 23 anni di storia italiana segnati dal movimento studentesco, dalla lotta armata, dalla strategia della tensione, dagli attentati, partendo dalla prima fiamma dello scontro sociale, l’occupazione della facoltà di Sociologia a Trento, fino alla dichiarazione di “resa” firmata nel carcere di Rebibbia da Prospero Gallinari e altri sette militanti delle Brigate Rosse.
A ricostruirli lo storico friulano Gabriele Donato, nella sua seconda fatica dedicata alla stagione del terrorismo, “La violenza, la rivolta - Cronologia della lotta armata in Italia 1966-1988”, edita anch’essa, sei anni dopo la prima (“La lotta è armata - Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia 1969-1972”), dall’Istituto per la Storia del movimento di Liberazione nel Fvg. Ad accomunare le due opere la voglia di comprendere la genesi e lo sviluppo di quegli “Anni di piombo” che hanno così profondamente segnato la storia del paese. E che qualcuno rievoca – sbagliando, secondo Donato – nel commentare i tanti episodi di violenza che stanno segnando questa ultima fase della campagna elettorale.
Pallottole contro gli immigrati, esponenti di estrema destra pestati dai militanti dei centri sociali, irruzioni neofasciste nelle sedi televisive: stanno davvero tornando gli Anni di piombo?
«Stiamo parlando di due contesti del tutto differenti. Dal mio punto di vista la violenza politica degli anni 70 fu un’espressione, per quanto deviata, di una grande voglia di partecipazione, di un’energia generata, a sinistra, da aspettative di un cambiamento imminente, di portata rivoluzionaria. Energie che non vedo adesso, in una realtà segnata piuttosto dal disincanto e dalla confusione».
Sbaglia quindi chi agita lo spettro degli Anni di piombo?
«C’è una violenza che genera una giusta preoccupazione, ma dietro a questa violenza non vedo un terreno politico. Quello che trovo allarmante, piuttosto, è la paradossale presenza di gruppi fascisti che sfidano la Costituzione senza che le istituzioni facciano nulla per intervenire, pur avendone i mezzi e trovandosi di fronte a un fenomeno di dimensioni ancora limitate, in un quadro economico e sociale che non mi sembra paragonabile a quello che ha visto la crescita di movimenti come Alba Dorata in Grecia. Negli anni Settanta, quando il clima dello scontro era ben più acceso, Pertini parlava di tolleranza zero verso il neofascismo, mentre oggi vedo un silenzio che rischia di suonare come un accreditamento di forze politiche esterne, lo ripeto, a quello che un tempo veniva chiamato arco costituzionale».
Sbaglia chi drammatizza o chi minimizza?
«Più che uno scontro sociale, quelle in atto mi sembrano scaramucce. Il problema vero è che il silenzio delle istituzioni verso messaggi esplicitamente ispirati a ideologie neofasciste e neonaziste generi una risposta violenta alla violenza, alimentando una tensione permanente, che riduce gli spazi di confronto politico e rischia di creare una brutta cappa. Proprio per questo credo che sia giusto comprendere, capire, piuttosto che generalizzare ed esprimersi per slogan, come fa chi parla di nuovo di Anni di piombo».
Ma quella del terrorismo di sinistra è davvero una stagione finita nel 1988? E le nuove Br, gli omicidi Biagi e D’Antona a cavallo del Duemila?
«Le Brigate Rosse sono state un’organizzazione che coinvolse centinaia di attivisti e forse migliaia di simpatizzanti. Quello che accadde tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio fu un fenomeno che vide pochi protagonisti pochi personaggi, che per ragioni più o meno chiare si dichiararono gli eredi di una lotta armata sconfitta definitivamente negli anni Ottanta».
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