«La mia vita sotto Tito nell’illusione perduta del socialismo reale»

MARIO BRANDOLIN. «Arrivai in Jugoslavia, clandestinamente, attraverso il cimitero di Gorizia con un mazzo di fiori, agli inizi di giugno del 1948. Eravamo quattro calabresi, tre studenti e un operaio. Io avevo vent’anni. Ci eravamo mossi dopo che altri nostri compagni ci avevano scritto di venire...». Ricorda cosí il suo arrivo nella Jugoslavia di Tito, di cui in questi giorni ricorre il settantesimo della fondazione, Alessandro Damiani, giornalista, scrittore, intellettuale, esponente di spicco della comunità italiana di Fiume. Un arrivo nel paese di quello che molti comunisti italiani “credevano” il paese del socialismo reale, di molto simile a quello dei quattro giovani friulani, protagonisti de “Il sogno di una cosa”, il romanzo in cui Pasolini raccontò le speranze e le delusioni che la Jugoslavia di Tito suscitò in molti che, delusi dalla piega democristiana presa dall’Italia alla fine della seconda guerra mondiale, arrivarono a Fiume e a Pola per costruire il socialismo.
«Durante la Resistenza, avevo 15 anni – spiega Damiani – ero anarchico, scrivevo per Umanità Nova, ma alla fine della guerra mi resi conto che gli anarchici erano onesti, sinceri, certo, ma politicamente non contavano né avrebbero potuto. Mi avvicinai ai comunisti...». Da qui la decisione di andare laddove i comunisti avevano dato vita a quella che sembrava una società finalmente egalitaria, giusta, proletaria. «Mi ritrovai in Slovenia; mi misero in un campo tipo caserma. C’erano un centinaio di altri giovani, parecchi provenienti da dietro l’angolo: dal Fvg... Dopo pochi giorni che sono lí: “Contrordine compagni”: Tito e Stalin hanno rotto, la Jugoslavia blinda i confini con Ungheria, Romania, Bulgaria e Albania. E chiude con doppia mandata quelli con la Grecia, dove in un primo momento pensavo di arrivare».
Damiani non se ne ritorna indietro, come molti. Resta. Dapprima a Lubiana, dove per campare si fa un po’ di Brigate giovanili volontarie: a costruire strade in giro per il Paese distrutto da 4 anni di guerra. Poi a Fiume, dove al Dramma italiano conosce Olga Stanic, croata, che diverrà sua moglie. Quanto al clima di quegli anni, «nessuno – precisa Damiani – in loco, sapeva cosa stesse succedendo. Socialismo? Pare... che ci si avviasse. Solo gli “anticomunisti” avevano le idee chiare. E, ovviamente, qualche mascalzone che si faceva passare per comunista. La fiducia in Tito, per chi minimamente si occupava di politica, era totale». E di Goli Otok, l’isola lager per i dissidenti, che si sapeva? «Poco. Era il carcere per i cominformisti, potenziali quinte colonne sovietiche. Nell’insieme, c’era ancora fiducia nella prospettiva “socialista”. Negli anni successivi, in me, scema». Cosí, nel 1957 torna in Italia, ma dopo pochi anni anche l’Italia lo delude e decide nel 1965 di ritornare a Fiume, dove da allora si impegna a salvaguardare e promuovere la lingua e la cultura italiana, consapevole «che il socialismo jugoslavo non ha nulla a che fare con il verbo, ma che comunque presenta germi di democraticità e poi c’è il non allineamento che permette al Paese di crescere economicamente». I limiti? «Da un lato l’impreparazione culturale della classe politica, dall’altro i sotterranei scontri tra le componenti nazionali maggiori. Di tutto ciò ai vertici del Paese probabilmente il solo Tito (e lo sloveno Kardelj) ha le idee chiare, tant’è che i due fanno mettere a punto una costituzione che sotto il profilo formale predispone una futura situazione scissionistica e indipendente per tutte le repubbliche federate». Cosa resta di quell’esperienza? «Nulla. Al pari dell’Urss, con in piú le divergenze nazionali e nazionalistiche, il tentativo di dare gambe socialiste a un paese arretrato non poteva dare frutti né semi. Altrove forse l’idea dell’autogestione potrebbe attecchire». «L’intuizione fu buona – conclude Damiani – anche perché si accompagnava all’autogoverno economico, purtroppo entrambi erano nominali e non fattuali».
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