«La mia musica per il Vajont perché i silenzi vanno cantati»

Domani il concerto-evento sulla diga, firmato dal noto compositore friulano «La melodia fissa i ricordi. Cinquant’anni sono nulla se insegui la verità»
Di Gian Paolo Polesini

di Gian Paolo Polesini

Marco Paolini calpestò . quella diga con il suo teatro evocativo. Furono parole e gesti. «I silenzi non devono essere osservati, ma cantati», disse. Schiaffò il suo credo dentro una chiacchiera casuale con un’artista di pari rango, musicista e compositore, che lo raccolse. Capita di conservare frasi, se ti girovagano dentro verrà sicuramente il tempo di usarle. Le creazioni ti spuntano fuori senza preavviso. E non ci pensava proprio Remo Anzovino al Vajont, nel senso di posizionare strumenti e salire su un podio proprio sotto la montagna, dove cinquant’anni fa l’uomo uccise altri uomini. La natura, be’, fa il suo, non sa trattenersi. «Ascolterete la musica di uno che non c’era». È del 1976, Anzovino. Nasce tredici anni dopo. Domani pomeriggio lui sarà al suo posto, gli orchestrali al loro, il Polifonico di Ruda pure e il quintetto d’archi Edodea, anche. Il Concerto della memoria è l’evento d’impatto emotivo in armonica evoluzione dalle 16, pioggia o non pioggia. Un tendone coprirà tutto e tutti. «Il suono aiuta a fissare i ricordi, mezzo secolo dal dramma è un bel numero. Ognuno è libero di scordare. È altresì un nulla per chi insegue il perché». C’era un pianoforte a casa, quando Remo non arrivava al metro. «Mi attraeva, eppure nessuno dei miei lo strimpellava. Iniziai a inventarmi musica, come fosse scrittura, volevo descrivere, dare forma all’astratto. Allora fu strategia casuale, si è poi cementata diventando il refrain di una vita».

- Con lei si risale la corrente, è un marchio. D’altronde a restar fermi si fa ruggine.

«La voglia di rivoluzione mi acchiappò quando il cinema muto pretese rumore. Andò così. Qualche lustro fa l’esame di stato coincise con la chiamata improvvisa della Cineteca di Bologna. Oddio. Panico. “Le diamo tre giorni di tempo per musicare Nanuk l’eschimese”, intimarono, il primo documentario lungometraggio di Robert J. Flaherty del 1922. Il bivio incombeva e francamente non sapevo se andare a destra o a sinistra. Non potendo proseguire dritto decisi di mettermi al pianoforte con i libri di penale sul tavolino accanto. Il cielo fu benevolo. Divenni avvocato e guadagnai i galloni cinematografici».

- Un binomio resistente.

«I mestieri convivono. Il penalista mi consente di spaziare da un curioso osservatorio sull’essere umano. Sensazioni multiple facilmente traghettabili nell’arte, che richiede una sensibilità speciale, una somma di tante piccole storie reali in frenetico passaggio quotidiano, dalle aule dei tribunali ai più angusti spazi delle carceri».

- In ordine cronologico, Dispari, Tabù, Igloo e l’ultimo Viaggiatore immobile. Opere delicate, racconti di ritmi e di malinconie, ognuna con una sua identità riscontrabile nel mondo palpabile.

«I titoli depistano, i contenuti spero contengano i desideri dell’ascoltatore. È lui a formare la storia, io ci metto la melodia. Giusto per capire quanto adoro osare, in un esperimento fu il film ad accompagnare le note e non viceversa come la logica imporrebbe».

- Fra vinile e cd?

«Il disco è oggetto da custodire. Lo scelgo senza dubbi».

- Di che si nutre, Anzovino?

«Di Mahler, Stravinsky, Berio, interessanti figure del Novecento. Ingurgito dosi massicce di Mozart, un innovatore. Se vivesse oggi campionerebbe suoni e userebbe contemporaneamente il trapano e un quartetto d’archi».

- Traccia potente dell’evento di domani si trova in coda di Viaggiatore immobile, ovvero 9 ottobre 1963 (Suite for Vajont) per pianoforte e coro virile. Dove e quando l’ha cominciato a plasmare?

- In automobile. Fa strano, ma non esiste un luogo dove si forma la materia. Io e mio fratello correvamo spediti verso Torino. Vien fuori il Vajont, poi rimaniamo in silenzio. È un lusso starsene zitti, riservato soltanto agli amici intimi. Ciò stimola ragionamenti dei più disparati e mi rimbalza in testa la dottrina del teatrante Paolini, quella del silenzio che andrebbe cantato, invece di osservato. Fermo la macchina, cerco nella borsa il quaderno col pentagramma e lo trovo. Metto dei segni, avevo già tutto chiaro. Persino il coro. E voglio il Polifonico di Ruda».

- Accanto a lei, musicisti di universi ben distinti.

«Onorando i filoni decisivi, classica contemporanea, pop e jazz rock. Vincenzo Vasi al theremin, glockenspiel, basso e voce, Alberto Milani alla chitarra elettrica e mio fratello Marco alle percussioni e chitarre acustiche».

- Cosa vede quando si sporge sul futuro?

«La contemporaneità ci aiuta a curiosare dall’altra parte del mondo. Resto nel mio, sia chiaro, non invado campi sconosciuti. Immagino steccati sradicati, contaminazioni musicali. Se non parli almeno tre lingue, stai indietro».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto