La Cripta dei Cappuccini con Natalino Balasso: «Raccontiamo i confini»
Al Verdi di Gorizia la prima dello spettacolo da Roth. La trilogia “Inabili alla morte” di Mittelfest per Go!2025

Che Mittelfest sarebbe se non avesse al centro la Mitteleuropa? Ecco che oggi, sabato 11, alle 20.45, al Verdi di Gorizia va in scena in prima assoluta un capolavoro che si lega alla finis Austriae: “La Cripta dei Cappuccini”, trasposizione teatrale del romanzo di Joseph Roth. La regia si deve a Giacomo Pedini, direttore artistico del festival, mentre l’adattamento è di Jacopo Giacomoni. Nei panni del protagonista, l’impacciato viveur viennese Francesco Ferdinando Trotta, si potrà applaudire Natalino Balasso.
“La Cripta dei Cappuccini” è il primo spettacolo di una trilogia che fa parte del progetto “Inabili alla morte” commissionato a Mittelfest dalla Regione e inserito tra gli eventi ufficiali di GO! 2025. Le musiche originali, eseguite e registrate dalla Fvg Orchestra, sono state affidate al compositore pordenonese Cristian Carrara. Scenografia di Alice Vanini.
Balasso, conosceva già il libro di Joseph Roth?
«L’avevo letto tanti anni fa. Quando mi è stato proposto di affrontare la sua trasposizione teatrale, lo ricordavo vagamente. Mi aveva interessato molto quell’excursus tra le due guerre. Ho quindi ripreso in mano il libro che, letto a un’altra età, mi è piaciuto ancor di più: è il racconto di un vecchio che rivede se stesso da giovane. Ho poi apprezzato il lavoro di drammaturgia fatto da Pedini e Giacomoni e ho accettato volentieri di prender parte al progetto».
In cosa diverge il romanzo dalla trasposizione teatrale?
«Ovviamente, in teatro c’è la necessità dell’azione, non solo della narrazione. La drammaturgia ha salvato entrambi gli elementi. Infatti, vediamo al contempo un narrante narrato: nel senso che vive in prima persona le cose che racconta. Proprio per una scelta drammaturgica, il narratore esce infatti dalla giostra degli eventi per arrivare al proscenio e fare ritorno a questa giostra. E poi c’è una serie di attori, bravissimi, che interpretano vari ruoli soprattutto legati alla famiglia Trotta».
Racconti il carattere del suo personaggio?
«Già nel libro c’è una duplice veste: i personaggi sono due, racchiusi in uno. Nel racconto c’è una visione ironica, disincantata, ed è la visione di un uomo avanti con gli anni: rivede la sua vita con una lucidità che definirei invidiabile. Riesce a non perdonarsi, mentre noi, se pensiamo al nostro passato, finiamo spesso per perdonarci un sacco di cose, contrariamente a quello che faremmo con gli altri. E poi troviamo il personaggio nel tempo in cui vive le avventure che racconta: per esempio a venti-trent’anni, quando decide di partire per la guerra con una propensione al suicidio tipica, in quell’epoca, di una certa generazione che si è sentita protagonista solo attraverso il conflitto».
Qual è il senso di inscenare “La Cripta dei Cappuccini”?
«Credo che raccontare il passato a teatro serva a comprendere da dove veniamo, a capire ciò che è avvenuto prima di noi, gli eventi che hanno innescato quei meccanismi di cui vediamo ancora oggi le conseguenze. In fondo, questo è il motivo generale per cui si rappresentano pure altri testi che parlano di altre epoche, di altri sentimenti che ci sembrano lontani. Comunque, a teatro la maggior parte del lavoro la fa il pubblico: sono gli spettatori a interpretare ciò che vedono, esistono sempre link al passato che ci connettono a epoche che non abbiamo conosciuto e l’artista non può certo discutere riguardo a queste interpretazioni.
Nel caso della Cripta dei Cappuccini, vediamo un momento di quegli Stati che oggi chiamiamo Austria, Polonia, Slovenia e così via, ma sono Paesi che derivano dalla polverizzazione dell’Impero fino alla seconda guerra mondiale. Raccontare i confini geografici che cambiano in continuazione serve anche a illustrare come, purtroppo, l’esistenza di un confine cambia pure il nostro pensiero».
Come sono andate le prove?
«Molto bene, anche se sono parecchio faticose. Ci sono tanti interventi degli attori, numerosi dialoghi che però sono abbinati al movimento fisico di una scenografia che ruota. E poi ci sono le musiche. Quindi, al di là della recitazione, c’è l’impegno di armonizzare un movimento generale, in cui si insinua ogni personaggio. E c’è qualche attore che interpreta più di un ruolo. Anche se occorre sempre ribadire che lavorare in miniera è un’altra cosa»
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