Jackie Chan: "Da grande vorrei essere De Niro"

Trionfale apparizione ieri sera del popolare attore alla première del festival «Noi facciamo vere arti marziali al cinema, gli americani usano il computer»
Udine 24 aprile 2015 FEFF17 Serata inaugurale. Copyright Foto Petrussi / Ferraro Simone
Udine 24 aprile 2015 FEFF17 Serata inaugurale. Copyright Foto Petrussi / Ferraro Simone

Be’, un red carpet per Jackie ci stava, no? Almeno una parata trionfale di avvicinamento al Nuovo. Macché. Chan è comparso nel foyer del teatro, forse entrando da qualche botola, com’è abituato nei suoi film. Sovrastato da un’onda d’urto umana il . divo di bianco vestito ha impattato contro centinaia di smartphone fino al suo arrivo sul palco.

E là sopra è cominciato lo show. Un mimato racconto della faticosa «e bollente» location desertica di Dragon Blade guardato a vista dal regista Daniel Lee e da un’incantata Sabrina Baracetti. In deliquio i mille e duecento del Giovannone, fra l’altro già sorpresi dal saluto in un impeccabile inglese del sindaco Honsell. L’assessore Torrenti, in italiano, ha garantito che la Regione ci sarà sempre. Bene.

In mattinata il signore di Hong Kong s’era fatto quattro passi per Udine, giusto per sgranchirsi le gambe dopo il volo in jet privato Pechino-Ronchi. Pioggia. Amen, un cappello di paglia acquistato lì per lì ha riparato la capoccia. Però mister Jackie Chan, ci perdoni, ma quella tuta in acrilico proprio no. Corrobora le crepe di una leggenda. Il recupero minimo di look nel pomeriggio, in conferenza stampa, con una camicia gialla. Ampio è lo spettro di chiacchiera, ma la specialità dell’hongkonghese ruba il palcoscenico al resto.

E Chan si agita se gli nomini l’action americano, «è maledettamente finto, mica come il nostro. Noi ci mettiamo le ossa, la pelle, i muscoli, loro invece schiacciano un tasto del computer e chiunque può diventare un supereroe». Quindi Jackie scova nella sua ampia galleria facciale l’espressione da frase decisiva: «un domani vorrei diventare il Robert De Niro d’Asia, affinché i miei fan, incontrandomi, assumano l'atteggiamento riservato agli attori seri e non il solito risolino compiaciuto di quando incroci un divertente giocoliere».

Gli ha reso bene saltare da un palazzo a un altro, però. «Da giovane badavo a fare soldi, della qualità dei film non mi preoccupavo. Crescendo, la prospettiva cambia. E capisci che soltanto le opere ben fatte sopravvivono al tempo, i filmetti scemi muoiono in un paio di settimane». Si ripropone il duello fra Usa e Cina per la supremazia cinematografica mondiale. Chan riavvolge ancora la sua storia. «Parecchi decenni fa tentai di smerciare le arti marziali in America, confidando nel libero pensiero di quel Paese, ma sbagliai. Adesso sono loro a chiamarmi».

Problema: che sarà mai del kung fu al cinema appena la dinastia contemporanea si ritirerà in campagna? L’attore con la camicia gialla è drastico: «finiti noi, finirà anche il genere. E intendo quello reale, senza trucchi e maneggi. Sopravviverà la finzione, ahimè». Problema numero due. Chan è un pacifista, eppure si esprime lottando. Un conflitto d'interessi? «Beccato. È vero. Ma la mia battaglia non è sanguinaria, è puro spettacolo. Non c’è il Male». Lo accompagna il regista di Dragon Blade, Daniel Lee e giocoforza si sorvola il senso dell’operazione che si concentra in una esaustiva sintesi: «Sette anni di dedizione, a cercare il significato migliore di un conflitto ipotizzato fra romani e cinesi, individuandolo nell’unico possibile: against war, contro la guerra».

Un paio di sguardi finali di Jackie. Sul passato: «Ricordo bene questa zona di mondo perché su un set jugoslavo rischiai di morire». Sul futuro: «Mi dico ogni mattina, devi sempre essere diverso, altrimenti sei fuori. Dormo tranquillo, per ora. Ho ancora otto film da girare».

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