«Io e Shakespeare contro il silenzio degli intellettuali»

Entri con carta e penna. Sai, sedendoti, che non sarai spettatore passivo. Nel rispetto di chi desidera il riposo/distacco, la prosa total - pur essendo di antica foggia - rappresenta il significato massimo del teatro, ovvero comunione fra attore e spettatore. Si fa di tutto per tenerlo in vita con dignità; il mestiere ha millenni da gestire e se non lo scuoti ogni tanto, s’arrugginisce.
La miglior anfetamina è l’idea, se poi c’è anche qualche spicciolo, ben venga. Curiosa assai è l’angolo di sguardo di un interprete scespiriano, tale Tim Crouch, un trentottenne britannico che si è preso cura della minoranza inscenata dal Bardo, ovvero di quel microcosmo da una o due battute che popola i classici del signore di Stratford-upon-Avon.
Lontani dai Giulio Cesare, dagli Otello, dagli Amleto. Come Banquo, il generale scozzese ucciso da Macbeth, come Calibano, il solitario abitante dell’isola su cui approda il Prospero de la Tempesta, come il Fiordipisello del Sogno (William gli concede una battuta soltanto: «Sono pronto») e come Cinna, il poeta scambiato per un congiurante nel Giulio Cesare.
Eccoci al capolinea. I Cinna. Produzione Css, protagonista unico Gabriele Benedetti, regia di Fabrizio Arcuri dell’Accademia degli Artefatti. Luogo della prima nazionale: al Piccolo Arsenale, martedì 6. Biennale di Venezia. Vale un pensiero. E una chiacchiera. Lo rivedremo in stagione Contatto, comunque.
Gabriele non ha la spocchia attoriale tipica di certi. «A me basta fare buon teatro, punto», dice. Da Udine raggiunge Roma, si fa i suoi bei tre anni d’Accademia Silvio D’Amico, entra nel giro. Tra le altre, visto il gran caos esploso sul Mittelfest, è il primo nome del cast di America di Giorgio Barberio Corsetti, messinscena cividalese del 1992; lo rivedremo poi nel Danubio di Pressburger tratto da Magris. Stesso luogo. «Con gli Artefatti - spiega Benedetti, ventiquattro anni di professionismo - ci spingiamo spesso in platea, ci piace annusare l’odore del pubblico. Crediamo sia un buon sistema contro la pennica improvvisa». Cinna è un poeta dall’andatura incerta. Lui cerca noi, posizionati giù dal palco, per una improvvisata collaborazione a una lirica. Sale e scende, curiosa i fogli, suggerisce, ci invita a scrivere nomi, concetti, sensazioni. Là sopra è casa sua, fuori c’è la sommossa. L’assassinio di Cesare è in mondovisione. Le coltellate in slow motion.
- Dietro all’indubbia vivacità di un testo originale, cosa si nasconde, Benedetti?
«La difficoltà di esprimersi con le parole. A volte anche il poeta è incapace di percepire la dinamica politica e non coglie lo spunto giusto per raccontare ed eventualmente cambiare il corso delle cose. Il ruolo spesso mancato di una certa classe intellettuale di oggi, che reagisce con silenzi e frasi oziose, provocando un inutile mulinello di concetti».
- Sfiduciato?
«Faccio il mio. Mi cibo di commedia commestibile, non cerco la fama. Non mi interessa proprio. Recito, per tutte le incombenze burocratiche c’è il regista».
- Ce ne sono?
«La facilità di movimento di un tempo se n’è andata. Tocca mediare, capire la politica, cercare i fondi, insomma, una serie di faccende non sempre piacevoli, ma utili alla sopravvivenza».
- Nello stesso San Giorgio dove in questi giorni si allena a essere il miglior Cinna, debuttò a 14 anni. Vero?
«Andò così. Con la regia di Giuseppe Bevilacqua».
- Il suo è un monologare libero. Deduciamo si diverta, trasformando anche l’ultima replica in una specie di prima.
«Il testo, seppure con incastri ben precisi, è assolutamente flessibile. Dipende dalla reazione della gente. Ecco, quello è spazio libero dove ogni sera devi inventarti qualcosa. Così succedendo, mai alcun spettacolo sarà uguale a quello della sera precedente e mai a quello della sera successiva. E lo puoi persino riempire di attualità work in progress.
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