Il sogno di una cosa, Toni Capuozzo racconta i cent’anni del Partito comunista

All’inizio di questa storia c’è la foto di due ragazzi udinesi, Toni Capuozzo e Vanni De Lucia, dallo sguardo deciso, con bandiera rossa in mano, ripresi in piazza Libertà. È il 25 aprile 1969 e loro, assieme a tanti altri, marciano verso piazzale XXVI luglio dove si sta inaugurando il monumento alla Resistenza. Dc e Pci si sono messi d’accordo quel giorno per una sorta di abbraccio, dopo tante polemiche.
C’è l’obbligo di non urlare slogan e di non sventolare bandiere. Ma loro non ci stanno, pur aderendo alla federazione giovanile comunista. A unirli sono i sogni, lo slancio, l’origine meridionale dei padri, tante altre cose, che dopo oltre mezzo secolo li hanno portati a fare un singolare giro attraverso l’Italia, a bordo di un minibus Uaz, sulle tracce di ciò che è stata la loro generazione e che per essa ha rappresentato il Partito comunista, quella volta e ancora oggi. Tutto questo ricordando i cento anni dalla nascita del Pci, avvenuta nel 1921, e i 30 dal suo scioglimento, nel 1991. Il racconto firmato dal giornalista Toni Capuozzo è diventato un reportage-inchiesta scandito come un road-movie, un po’ alla maniera di Kerouac perché, per capire davvero e mettersi in gioco, è necessario inoltrarsi lungo le strade della vita, guardarsi attorno, ascoltare, riflettere.
Sarà trasmesso in due speciali, con inizio alle 21, venerdì 30 aprile e sabato primo maggio (date sempre significative per la sinistra), su Focus, canale 35 delle reti tv Mediaset. Il titolo del programma evoca quello, bellissimo, del romanzo più friulano scritto da Pier Paolo Pasolini, “Il sogno di una cosa”, in cui tre ragazzi affrontano il mondo e due scappano in Jugoslavia, vista come Terra Promessa, e finiscono triturati dalla storia e dalle delusioni. Partendo da lì, Capuozzo ha voluto al suo fianco come interlocutore nel viaggio l'attore Vanni De Lucia, il compagno di quell'antica foto. Le loro strade poi si sono divise, anche nelle convinzioni politiche, per cui ancora oggi litigano, sorridendo.
Spiega Capuozzo: «Non ho voluto fare un lavoro d’archivio, ma ho cercato frammenti tra luci, ombre, eredità positive e no. Il mio non è un pellegrinaggio devoto o un soddisfatto aggirarsi tra le macerie del partito comunista, bensì un percorso nei luoghi cruciali, incontrando testimoni e persone qualunque, con rispetto, senza nostalgie. Siamo ancora vittime delle ideologie e questo impedisce spesso di riconoscere errori e orrori. Anche le bandiere più belle si sono macchiate di qualcosa, e questo va detto. Credo nella Resistenza, ma non deve essere una difesa di parte. La strage di Porzus è stata una tragedia, non un colpo di testa di personaggi isolati».
Il viaggio fa tappa in luoghi simbolo, come Sesto San Giovanni, che era definita la Stalingrado italiana, oppure lo stabilimento di Mirafiori o Bologna, la città rossa per definizione. E poi c’è Genova con il suo passato tra acciaierie e terrorismo, o Padova, dove Berlinguer tenne l’ultimo drammatico comizio che segnò l’apoteosi e la fine di un partito. Capuozzo intervista la figlia adottiva di Togliatti e la cuoca di una mitica festa dell’Unità, assieme a militanti sconosciuti e leader di spicco di quel tempo.
In regione fa tappa a Udine, davanti al monumento dedicato a Rosina Cantoni, e a Casarsa rende omaggio alla tomba di Pasolini, sepolto accanto a mamma Susanna e al fratello Guido, ucciso a Porzus. A Monfalcone si parla dei duemila operai dei cantieri navali che a fine guerra emigrarono in Jugoslavia, convinti di essere accolti a braccia aperte, di trovarvi con Tito un mondo più giusto, e finiti reclusi nell’isola di Goli Otok. Conclusione del viaggio a Trieste dove i due amici hanno il chiarimento finale e Vanni dice a Toni: «Sì, ci ho creduto e ci credo. Forse è stata solo utopia, ma mi ha aiutato a vivere». —
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