Il ricordo di Getulio Alviani, artista d’avanguardia che amava poco il passato

UDINE. L’artista d’avanguardia, per antonomasia, è colui che non solo si inventa una nuova dimensione estetica, mettendo in atto il totale rispecchiamento tra arte e vita, ma soprattutto si proietta nel futuro.
Un ruolo da tempo riconosciuto a Getulio Alviani, scomparso a 78 anni dopo una lunga malattia, sicuramente il più noto artista italiano nel campo del costruttivismo, dell’arte cinetica e programmata, le cui opere sono in mostra nelle principali collezioni museali a livello internazionale, dal Moma di New York alla Gnam di Roma, da Basilea a Londra.
Udinese di nascita, ingegno versatile che ha spaziato in vari campi, dal design (giovanissimo diventa famoso inventando una valvola elettrica con una nuova concezione segnaletica e degli interruttori automatici con pulsanti fluorescenti), alla grafica (con un’incursione anche nell’arte tessile) all’architettura, Alviani è universalmente noto per le sue “superfici a testura vibratile” in alluminio, realizzate a partire dal 1954, opere che vivono nello spazio generando immagini sempre diverse a seconda dell’incidenza della luce: esposte per la prima volta nel 1961 a Lubiana sancirono l’inizio della sua folgorante carriera di artista.
Alviani andrà poi elaborando strutture speculari con lamine di alluminio piano e ricurvo, e ragionando sul tema della modularità, della serie, del multiplo, con un’attenzione continua e costante ai problemi della percezione che si esplicita negli environnements, ambienti in cui il pubblico interviene in prima persona.
Poco più che ventenne, nel 1965 è dunque invitato a esporre al Museum of Modern Art di New York, nel contesto di una mostra epocale per la diffusione mondiale dell’optical art, The responsive eye.
Ma la ricerca nei decenni successivi non si ferma, e la sua arte inventa oggetti luminosi a movimento termo-meccanico, indagando le fenomenologie cromatiche e le strutture plastiche generate da formulazioni matematiche, sempre in cerca di un’opera perfetta, astratta, assoluta, in applicazione del suo principio che «La non precisione genera in caos a catena, la non programmazione genera la dispersione dell’energia».
E anche in virtù del suo essere artista d’avanguardia, Alviani ha svolto un importante ruolo come operatore culturale, allestitore di musei e promotore di mostre, in virtù dei suoi legami internazionali con il mondo dell’arte, e non ultimo desidero qui ricordare il suo generoso impegno personale nel 2002 “per il futuro di Vukovar”, una serie di iniziative e donazioni per la ricostruzione nella ex Jugoslavia, convinto che “se il mondo - scrive Alviani nella prefazione del catalogo dedicato ad Anna Palange, la sua compagna di vita - avesse imboccato la strada delle nostre idee, del nostro modo di essere e dell’intelligenza del fare, portata come esempio nella vita, forse quell’orribile guerra non ci sarebbe stata, non ci sarebbero state quelle perversità, non sarebbe avvenuta la tragedia insensata di Vukovar, città martire».
Di fatto se in tante interviste e dichiarazioni Getulio ha sempre affermato di avere in poca considerazione il passato e di essere interessato solo al futuro, in linea con il suo atteggiamento progettuale nei confronti dell’opera, dell’esaltazione propria del processo ideativo, razionale ed analitico, tuttavia quando parlava degli anni della sua formazione, pochi come lui avevano il piacere di ricordare, con senso di gratitudine e affetto, i tanti “piccoli maestri” e gli episodi del suo giovanile apprendistato in quel di Udine, riandando a quei favolosi anni Cinquanta e rivelando un profondo legame con la sua terra di origine, e la consapevolezza delle sue radici profondamente radicate in quella cultura del progetto e del fare.
Rileggendo la prefazione di un importante catalogo a corredo della monografica alla Galleria d’Arte Moderna di Bergamo nel 2005 alla domanda del curatore, Giacinto Di Pietrantonio, in merito al suo primo incontro con l’arte, Alviani ricorda la scoperta di “alcuni libretti d’arte” in una bancarella alla fiera di Santa Caterina, le sue prime ex-tempore e la pittura dal vero nella campagna friulana, la frequentazione dello studio di Max Piccini dove realizzava plastici su commissione degli architetti Mimmo Biasi, Marcello D’Olivo.
«Fu così che iniziai a lavorare con gli architetti, ripassando a china i loro disegni e iniziai a rendermi conto che tutto quello che l’uomo aveva fatto era stato progettato, aveva delle leggi”, un concetto nuovamente sottolineata nel suo contributo al catalogo della mostra “Le Arti a Udine nel ‘900” allestita nel 2000: «Da loro ho appreso i concetti del fare e dell’essere», come dire non c’è dunque avanguardia senza la consapevolezza della propria storia.
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