Il regista Magnani racconta “La lunga corsa”: «Mi rivedo in Giacinto, anch’io ho affrontato le sue paure»

Il suo lavoro che esce oggi in tutta Italia. Distribuito dalla friulana Tucker film: «Mi piace la passione che ci mettono»

Gianpaolo Polesini
Il regista Andrea Magnani
Il regista Andrea Magnani

UDINE. Il problema si crea quando devi scrivere su argomenti che battono bandiera friulana, tipo la Tucker film e la sua ultima distribuzione “La lunga corsa” di

Andrea Magnani, in uscita oggi (giovedì 24 agosto) al Visionario di Udine e in tutte le sale italiane. Se lo esalti, il film dico, c’è sempre quello che pensa: ovvio, come potrebbe parlarne male? Ecco. Se lo affossi ti accusano di averlo fatto apposta perché, magari, persiste un certo malumore nascosto con i giovanotti del Cec. A tenersi vaghi, peggio ancora: non gli è piaciuto e non sapeva come metterlo giù. È un codardo.

A questo punto me ne frego di quello che potrebbe congetturare la gente e appunto sul bloc-notes: una pellicola di rara sensibilità e di estrema originalità come difficilmente il cinema italiano produce.

Una vicenda delicata trattata con il sorriso e con varie similitudini - c’è chi sottolinea pure una vaga somiglianza con Forrest Gump e con Pinocchio - e sostenuta da una personalità ben definita. In poche righe: il figlio di una coppia di carcerati, Giacinto, nasce fra le sbarre e si ritroverà ben presto da solo. La galera così diventerà la sua personalissima comfort zone.

A questo punto siamo curiosi di conoscere chi in realtà sia Giacinto, un ragazzo che nell’esistenza comune non pare trovarsi benissimo.

«Lui ha molto di me bambino, come spesso è inevitabile che accada. Nel senso: è naturale proiettare se stessi in qualunque opera d’arte se non altro per la conoscenza profonda del nostro vissuto. Anch’io percepivo un dannoso accerchiamento, una sensazione soffocante. Ci vuole coraggio nell’abbandonare il certo per l’incerto e questo sentore cominciò a vagare nei miei pensieri dopo aver letto, 20 anni fa, un articolo sui bimbi nati, appunto, in carcere».

La galera non è un luogo definito, siamo in zona metafora, ovviamente.

«Certo, rappresenta una chiusura e, allo stesso tempo, un rifugio sicuro, dove tornare quando la vita non ti accetta per come sei».

La scelta di Adriano Tardiolo, quale Giacinto, già attore in “Lazzaro felice”, la trovo impeccabile. L’impressione è che per lui la macchina da presa sia spenta, tanta naturalezza esprime.

«Il suo sguardo mi colpì durante uno dei primi provini. Tutti gli altri, sebbene fossero professionisti e lui no, esibivano una consapevolezza di loro stessi. Adriano, no. Fra l’altro sta studiando economia e vorrebbe rilevare l’azienda dei genitori».

Quel titolo - “Forrest Gump” - che è finito affiancato a “La lunga corsa”, immagino lo abbia gradito. Se l’aspettava?

«Diciamo che Forrest entrò nella mia esistenza appena uscì la pellicola nel 1994, ma lui non fu un personaggio di quelli sfuggenti destinati a dissolversi, al contrario iniziò diventare un amico e, inevitabilmente, ha condizionato il mio cinema, tanto più in un’opera come questa dove lo “spostamento” è l’elemento narrativo dominante. Se posso aggiungere, c’è un altro lungometraggio del 1962 - “Gioventù, amore, rabbia” - che in inglese suona meglio come “La solitudine del corridore”, dove il ribelle protagonista, prima del traguardo, si ferma per lasciar vincere il secondo, al fine di esaltare ancor di più la sua atavica mania sovversiva».

In un cinema che ama riproporre i vizi dell’umanità, più o meno sotto forme assai simili, lei imbocca la strada opposta.

«Non amo i cliché, anzi, li rifuggo».

Posso aggiungere un altro parallelismo? Il suo “La lunga corsa” ha alcune tonalità proprie di Wes Anderson.

«Be’, non uno qualunque. Ne sono orgoglioso. Ho infatti cercato un lavoro sulla simmetria che ho trovato perfetto per raccontare simbolicamente questo mondo: il dentro e il fuori, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato».

Questa è la sua seconda collaborazione con la Tucker film, dopo “Easy - Un viaggio facile facile”.

«Loro sono degli amici, innanzitutto. Thomas e Sabrina amano il cinema e tutte le loro scelte vengono dal cuore. Prima conta l’amore verso una passione cinematografica, poi arriva il resto. E già vantano la distribuzione di due opere da Oscar, non certo un particolare trascurabile».

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