Il pensiero di Foucault, Sloterdijk e Bateson per approfondire il concetto di libertà
L’indagine nel nuovo saggio del professor Possamai. L’importanza di prendere le distanze dai condizionamenti

“La pazienza della libertà”, con questo titolo davvero molto suggestivo il professore Tiziano Possamai, udinese di adozione e docente di antropologia culturale all’Accademia di Belle Arti di Venezia e Milano, affida alle stampe la sua ultima fatica.
Un’articolata riflessione sul pensiero di Michel Foucault, uno dei più importanti pensatori, quasi imprescindibili nel dibattito filosofico contemporaneo, del filosofo tedesco Peter Sloterdijk, recentemente insignito del Premio Udine Filosofia, e dell’antropologo e sociologo americano Gregory Bateson. Una riflessione attorno temi cruciali come il concetto di libertà, di identità o del sé, del nostro rapporto con l’altro, con l’arte e con il gioco, con la follia.
Il volume, edito da Mimesisi/Eterotopie, è suddiviso in tre parti, ciascuna delle quali focalizzata sulla speculazione filosofica sociologica e politica dei tre pensatori, anche se alla fine il quadro si ricompone unitariamente attorno al tema principale, quello della libertà e del sé come suo soggetto.
Ecco: che cosa è dunque per Foucault la libertà?
«Foucault – esamina Possamai – è famoso per gli studi sulla non libertà e nei suoi primi lavori mostrava come noi soggetti ci produciamo attraverso tutta una serie di sistemi che ci assoggettano, la parola stessa soggetto etimologicamente indica proprio il fatto di essere assoggettato. Per cui è passato alla storia come il filosofo della non libertà.
Ma in realtà c’è un ultimo Foucault che, prima di morire cinquantenne di Aids nel 1984, aveva cominciato a mettere in discussione anche se stesso sostenendo che in fondo i suoi studi, mostravano sì gli spazi di costrizione e condizionamento, quelli che ci segnano sin dalla nascita (luogo, tempo, classe di appartenenza, genere, strutture culturali e linguistiche che non scegliamo,...), ma sostenendo anche che il rendersi conto che non siamo liberi ci consente di esserlo.
Nel senso che da questa consapevolezza può venire lo stimolo a ricercare quegli spazi di libertà a loro volta condizionati, solo però dal nostro voler e poter scegliere».
E perché è “paziente” questa libertà, come dal titolo?
« Perché questo è un processo che implica tempo, pazienza, studio, essere critici verso se stessi e verso il proprio mondo».
É questo che intende Foucault quando parla di prendersi cura di sé?
«Sì, e per questo studia una serie di tecniche, di esercizi per migliorarsi, anche trasformarsi, per uscire dai condizionamenti e dalle nostre abitudini: perché, dice, “essere liberi è un’impossibilità possibile”.
Tra queste modalità o “tecnologie” come le chiama Foucault c’è anche quella del “distacco da sé nel quale il soggetto può ritrovare se stesso”. Perché per essere noi stessi dovremmo allontanarci da quel noi stessi che ci siamo ritrovati al momento di venire nel mondo.
Ma, come stare al mondo dipende solo da noi. Un percorso di distanziamento che è poi quello che hanno fatto sia Foucault sia Sloderdijk che Bateson che nel corso dei loro studi in qualche modo si son distaccati da sé, criticando anche quanto elaborato agli inizi della loro ricerca per giungere a una sorta di conclusioni simili, e cioè che la libertà è possibile, anche se condizionata (“l’impossibilità possibile” di cui sopra), partendo proprio dalla consapevolezza che si può cambiare (uno degli ultimi lavori di Sloderdijk si intitola appunto “Devi cambiare la tua vita”)».
C’è poi un’altra immagine, quel ritornare dove non siamo mai stati, che riprende una battuta di Bob Dylan, quando nel 1961 dal Minnesota, profonda provincia americana, va a New York dove non era mai stato prima e a chi gli chiedeva dove andasse rispondeva ritorno a casa.
«Perché per lui quello era il luogo dove poteva essere finalmente se stesso. Libero da quei condizionamenti che la società in cui aveva vissuto fino ad allora gli impedivano una piena e libera manifestazione del proprio sé».
C’è poi l’arte e la sua capacità di intervenire nel processo di affermazione del sé, “facendoci mangiare il menù al posto del pranzo” come scrive Bateson. In che senso?
«Nel senso che l’arte è un esercizio di libertà, perché di nuovo ti fa uscire dalla realtà e ti fa vedere che potresti essere qualcosa di diverso, ti stimola a migliorati dandoti l’idea che non sei un assoluto e facendoti fare un salto nell’immaginario che comunque diventa una realtà a tutti gli effetti.
Quando, ad esempio, vedi Amleto in scena, anche se sai che è un attore, ti emozioni, rifletti, facendo diventare quell’attore veramente Amleto. Si tratta di un paradosso, sì, ma positivo, progressivo, perché ti apre al possibile, creando nuove cornici di senso».
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