«Il Papa che riabilita Lutero ritrova il dialogo col mondo»

di Melania Lunazzi
«La Chiesa è oggi l’unica istituzione vivente che esista da millenni. In ogni epoca i Papi hanno avuto un loro modo di parlare al mondo. Le loro parole diventano per noi uno specchio in cui leggere la Storia».
Lo storico Alessandro Barbèro è stato ieri protagonista al Teatro Giovanni da Udine del secondo degli incontri “Lezioni di Storia” con una conferenza molto partecipata su “Il linguaggio del Papa”, titolo dell’omonimo libro da lui pubblicato per gli editori Laterza. Un excursus raccontato con toni avvincenti - Barbèro, oltre che storico è anche scrittore di romanzi di successo come ha ricordato Mario Brandolin nel presentarlo al pubblico - dall’XI secolo fino agli anni Sessanta del Novecento, ma che è arrivato inevitabilmente fino alla contemporaneità e a Papa Francesco. Quest’ultimo è stato citato più volte da Barbèro come grande innovatore del linguaggio e non solo: dal termine “pugno” usato nel 2015 dopo i fatti di Charlie Hebdo, allo “hacer lio” (letteralmente “fare casino”) con cui nel 2013 ha esortato i giovani cattolici argentini durante la giornata mondiale della gioventù: «La scorsa settimana il Papa era in Svezia per celebrare l’anniversario dei Cinquecento anni della Riforma Protestante, che cadrà nel 2017. Per l’occasione ha dichiarato che è un peccato che Lutero si sia trasformato in una spaccatura per la Chiesa e che lo stesso aveva ragione a voler cambiare le cose. “Ecclesia semper reformanda est”, ha detto Francesco: questa è una frase protestante. E che lo dica il Papa è una novità strabiliante. Questa era una notizia da prima pagina. Ecco di cosa dovevano parlare i giornali invece che del Referendum».
Il viaggio di Barbèro sugli exempla dei pontefici è stato scandito da alcune figure emblematiche, volte a segnare un percorso lineare lungo il quale si può dimostrare come la Chiesa, attraverso i Papi, sia partita da un forte potere e una forte credibilità iniziali, per arrivare dall’Ottocento in poi a una totale perdita di incisività e credibilità che ha coinciso con i due terribili conflitti mondiali. Ne sono stati protagonisti a partire dal Mille («perché prima di quella data i Papi non erano ancora i vertici della Chiesa cattolica») Gregorio VII, che ha usato un linguaggio quasi “marxista” nel giustificare la superiorità del Papa sull’Imperatore («Gli uomini sono tutti uguali, quindi l’Imperatore deve essere in ginocchio davanti al Papa»); Gregorio IX, che nel 1239 scomunica a Federico II per aver osato elencare gli errori del Papa definendolo «un mostro, una bestia… un fabbricante di falsità senza pudore» («se i papi avessero usato gli stessi toni con Hitler le sorti del Mondo e della Chiesa sarebbero stati diversi»); Bonifacio VIII («che ha saputo usare bene sia il linguaggio da giurista sia lo strumento della Bibbia per giustificare il suo potere temporale e spirituale»); Leone X, che affronta la minaccia di Lutero («dice che le 42 tesi di Lutero sono sbagliate, ma non lo dimostra e perde fedeli in Germania, Inghilterra e Scandinavia»); Pio V («un sanguinario aggressivo, persecutore di ebrei e protestant. i»); e infine i papi otto-novecenteschi, che, davanti agli uomini del Risorgimento perdono credibilità ed emanano prima «bolle che sono una deplorazione continua, senza incisività» (Gregorio XVI con “Mirari vos”) e poi capiscono che devono cambiare, ma rimangono inascoltati. Leone XIII nel 1891 introduce un linguaggio nuovo e tocca la questione operaia, mettendo per la prima volta al centro l’uomo; Benedetto XV nel 1917 parla della guerra come di una “inutile strage”, ma la sua è voce nel deserto. Si arriva quindi a Giovanni XXIII «che con “Pacem in terris” nel 1963 raggiunge un equilibrio, la capacità di parlare al mondo», e Paolo VI, che con l’enciclica “Populorum progressio” e linguaggio moderno, «capisce che la Chiesa non deve parlare di una verità immutabile, ma della verità del loro tempo».
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