Il regista Nichetti alle Giornate della Luce a Spilimbergo: «Il prossimo film? Niente fretta, ho tempi lunghi»

Il cineasta milaneste sarà al Miotto sabato 7 maggio alle 21. Laureato in architettura, ha sostenuto un esame con Gae Aulenti

Gian Paolo Polesini
Il regista Maurizio Nichetti sarà sabato 7 giugno a Spilimbergo
Il regista Maurizio Nichetti sarà sabato 7 giugno a Spilimbergo

A ventitré anni dall’ultimo film “Honolulu Baby” e a quarantacinque dal primo, l’iconico “Ratataplan”, che quell’anno, nel 1979, elettrizzò il pubblico della Mostra del Cinema di Venezia per l’originale piglio muto, ben più vicino a Charlot e a Tati che alle tendenze dei Settanta, Maurizio Nichetti l’indipendente si riaffaccia in sala.

Lui è un regista che ha sempre scritto un cinema d’idee, per nulla fotocopiato e a distanza di sicurezza dal mainstream, ovvero dalla corrente dominante.

Ed ecco arrivare, nel 2024, “Amiche mai” con l’insolita coppia al femminile Finocchiaro-Yilmaz, il primo on the road del cineasta milanese, invitato sabato 7 al vernissage delle “Giornate della Luce” di Spilimbergo, festival cinematografico a cura di Gloria De Antoni e di Donato Guerra, in “onda” fino a domenica 15.

L’appuntamento di sabato 7 giugno sera con Nichetti, e con il direttore della fotografia Vincenzo Carpineta, sarà per le 21 al Miotto.

Maurizio, come mai questo lungo intervallo senza film?

«Ah, non lo so. Sono volati via questi anni che nemmeno me ne sono accorto. Un concetto rimarcato da molti e adesso comincio a preoccuparmi. Diciamo che ho fatto altro».

Poi la voglia di tornare. Con il set organizzato in Friuli Venezia Giulia. C’è un perché proprio nel Nord Est?

«La storia è un lungo viaggio verso la Turchia, e Trieste offriva un comodo confine: in un balzo sei nei Balcani. La produzione, avendo lavorato con Gabriele Salvatores, ben conosceva l’efficienza della Film Commission Fvg e, devo dire, aveva ragione».

Ha ritrovato la sua attrice preferita, ovvero Angela, con lei sin dagli inizi, facendola affiancare dalla Serra, l’interprete feticcio di Özpetek. Non è che Ferzan se l’è presa?

«Ma no! Però non l’ha inserita nel cast della sua recentissima opera. Stanno bene assieme: la veterinaria e la badante caratterialmente agli opposti. Diciamo che non avevo mai macinato così tanti chilometri incappando in qualche avventura di troppo, però è stato affascinante».

C’è l’elemento social letteralmente schiaffato dentro la trama con la stessa evidenza contemporanea.

«Cerco sempre d’infarcire le pellicole con corpi all’apparenza estranei, dai fumetti di un tempo, appunto, alla comunicazione spicciola di adesso. È ben più facile inquadrare lo schermo di un cellulare che uno schermo grande. Quindi, mi sono detto, diamo un senso alla modernità».

La sua laurea in architettura le è servita per “disegnare” meglio il cinema?

«Anche Hitchcock era un architetto. A lui è servito. Per quanto mi riguarda lo devono dire gli altri. Mi sono impegnato parecchio sostenendo l’esame di Stato con Gae Aulenti. E, di questo, ne vado fiero. Poi la mania di scrivere sceneggiature prese il sopravvento».

E a chi le fece leggere?

«Allora giravo con i fogli nella borsa, vuoi mai che casualmente spuntava un’occasione. Che arrivò durante le riprese di “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”. Una storia diciamo commissionata e scritta da me finì fra le mani sapienti di Mario Monicelli, il regista del film. Mi disse che non era affatto male. “La farei leggere ai miei amici”, disse. E i suoi amici erano Age, Scarpelli, Benvenuti, degli autentici fuoriclasse. Fu come buttare legna fresca sul fuoco: ritrovai calore, voglia ed energia».

E arrivò “Ratataplan”, un caposaldo della cinematografia fine Settanta.

«Uscì e, per allora, era fuori moda. Come gli altri che lo seguirono. Appartenevano però a una nuova direzione del cinema italiano dei Moretti e poi dei Troisi, dei Benigni, ma per uno come me che preferiva la libertà ogni volta diventava un’impresa farmi produrre e cercare un distributore. Ce l’ho sempre fatta, comunque».

Indimenticabile è il collettivo teatrale di “Ratataplan”, ovvero “Quelli di Grock” saltimbanchi in stile Ottocentesco.

«Pensi che esistono ancora. Fra l’altro la loro sede è vicino casa mia. Ogni anno centinaia di allievi apprendono l’arte di strada, quella dura e pura».

Le fa piacere essere definito il “Woody Allen italiano”?

«Oddio, poi lui si è perso, in realtà, ma i primi lungometraggi erano capolavori assoluti. Fare un film all’anno diventa una catena di montaggio. Ognuno, va detto, contiene qualche magnifica idea. Gli altri del passato erano una totale magnifica idea».

Non è che passeranno altri vent’anni per il prossimo film, Nichetti?

«Non mi mettete fretta, ho tempi lunghi io». 

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