Il nuovo libro di Angelo Floramo: “Breve storia sentimentale dei Balcani”

Da oggi è in libreria Breve storia sentimentale dei Balcani di Angelo Floramo, edito da Bottega Errante. Domani la prima presentazione, alle 21, all’auditorium di San Daniele. Il vincitore del Premio Nonino Risit d’Aur 2024 dialogherà con Paolo Patui nell’ultimo appuntamento di LeggerMente.
«Perché scrivo? Le parole sono una traccia di un mio passaggio, in fin dei conti. Un’orma appena sulla terra umida, che il sole o la burrasca presto cancelleranno. Non troppo diverse da quelle impercettibili, lasciate poco fa dal fagiano... Eppure continuo a scrivere. E di Balcani poi. Con quella insistenza dell’amante che cerca ma non trova. Per questo mi ostino, descrivendo i perimetri sempre variabili della mia infatuazione».
La storia dei Balcani, di cui Floramo ci lascia traccia appassionata in questo nuovo libro, è definita “breve”, forse perché sembra solo uno dei possibili percorsi o assaggi che lo scrittore viandante, nel suo “andare furibondo”, potrebbe raccontare; “sentimentale”, perché, in fondo, i Balcani sono per l’autore una «condizione dello spirito», una «mappa interiore, viscerale e profonda», in cui Storia e biografia si contorcono, si annodano, per sciogliersi nell’incontro con l’altro.
Popoli, frontiere, utopie si snodano in tre sezioni, “il tempo del mito”, “la storia”, “il grido dell’oggi”, che si sviluppano come un viaggio. Il punto di partenza è un ventre, la pancia della casa dell’autore, che è anche epicentro e approdo. La «meravigliosa frastornante alterità» dei Balcani riemerge dai ricordi e dai pensieri saporosi, speziati, unti e sapidi: «idee che riaffiorano a tradimento, come le cipolle delle “sardelle in saor”, gustate con Mauro Daltin.
Floramo ci conduce a Hrpelje, dove insegnava la nonna, e al “ruscelletto illirico”, Ilirska Bistrica, un paradiso ancestrale di acque abitate da spiriti. Ci parla dell’Illiria, terra matriarcale, degli Illiri “liberi”, tribù senza padrone. Trova Medea in una badante. Li seguiamo dentro una bottega di prodotti dell’Est Europa, in Borgo Stazione a Udine, e assistiamo allo scambio: una storia per una cena georgiana. Ci fa incontrare l’uomo con la testa di cane, la tribù dei Cinocefali, spiriti che accompagnano le anime dei morti. E ci porta dove si inabissa il Timavo.
Ci racconta della Bosnia sognata, che «forse è madre» e per questo conduce al pensiero del padre. E di Trogir, dove Floramo torna con i ricordi, mentre finge di leggere un libro per osservare clandestinamente la figlia che si è fatta donna. Nel trolley che lei ha chiuso, si ha l’impressione che ci siano anche le vocine che il padre s’inventava per farla ridere, da bambina.
E c’è , poco fuori Gorizia, «la terra di tutti e di nessuno», l’Europa in una locanda, dove la pace ha il profumo della mescolanza di sapori e bacini: Baltico, Mar Nero e Mediterraneo.
Sostiamo con Floramo sui ponti, da quello sulla Drina di Andrić allo Stari Most di Mostar, passando per il ponte latino di Sarajevo. «Secondo un’antica tradizione islamica i ponti sono angeli con i piedi uniti dentro all’acqua dei fiumi: tengono le ali spiegate, da una sponda all’altra, per aiutare gli uomini che abitano sulle opposte rive a non sentirsi “rivali”».
C’è un passo del libro paralizzante: una storia che ha la forma di tragedia in tre atti. Lo scenario è quello di Srebrenica, terra ruvida di pietre e sole, lavorata con rabbia dagli uomini, addolcita dalle mani sapienti delle donne che ne traggono marmellate colorate. Corrono voci di cose atroci che fanno paura, ma sembrano lontane. Poi l’inferno: colpi di fucile, ragazze violate. Ma più disumano dello stupro, per chi legge, è il gesto di una madre contro un'altra madre.
Paralizza la storia di una ragazzina consegnata da una donna nelle mani feroci dei boia. Ma Fatma è sopravvissuta per dirci che «non ci sono popoli figli di puttana, ma figli di puttana in tutti i popoli». È lei a ricordarci che per gli uomini è facile vincere la guerra con mezzi e alleati forti. Alle donne spetta il compito più difficile: «vincere la Pace».
L’ultima tappa, prima dell’approdo a casa, non può che essere il piccolo villaggio di Sveto sull’altopiano carsico, costruito «con le pietre grigie strappate a forza di fatica e bestemmie dalla campagna»: la terra del padre, che unisce Gorizia a Trieste, l’Europa al mare. È il luogo a cui Floramo sente di appartenere, “un crocicchio di strade e di canti, in fin dei conti”.
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