Il Friuli visto da Carlo Innocenti: ultimi scatti del mondo contadino

Il Friuli è stata una terra di fotografi, famiglie come i Malignani, Pignat e Brisighelli hanno pattugliato il nostro territorio producendo centinaia di immagini irripetibili, una storia attraverso gli scatti che hanno documentato guerre, cambiamenti sociali e urbanistici, artigianato, politica, insomma la metamorfosi di una società.
Con la scomparsa nel 1966 di Carlo Pignat e Attilio Brisighelli, la memoria storica del nostro territorio è stata ripresa da altri fotografi come Carlo Innocenti, classe 1942, che ha avuto la possibilità di esercitare la sua passione con grande autonomia. Di lui è uscito in recentemente il libro “La me tiere. Viaggio per immagini nella civiltà contadina del Friuli” edito da Cierre, a cura di Giuseppe Bergamini.
Nel 1965 comincia le sue peregrinazioni nel vecchio Friuli, accompagnato da una macchina fotografica, sempre alla ricerca di qualche artigiano ancora attivo in un lavoro in estinzione, con una volontà di impressionare la pellicola con quell'ultimo scatto che potrà documentare una storia, un racconto destinato a finire.
Carlo Innocenti è un fotografo-documentarista decisamente diverso dagli altri se non altro per l’utilizzo, ancora oggi, di una vecchia reflex analogica che gli permette degli scatti lenti e meditati ben diversi dalla “mitragliata” di immagini prodotta dalla tecnologia digitale.
La tecnica fotografica è importante, ma nella maggioranza dei casi è supportata da un digitale che risolve ogni problema di definizione grazie ad un operatore di photoshop che può enfatizzare e correggere qualunque scatto, mentre il fotografo è libero di concentrarsi nella ricerca espressiva, nell’inquadratura, insomma nel soggetto e nel “taglio” dell’immagine.
Le fatidiche 36 istantanee di ogni pellicola realizzate dalla macchina fotografica di Innocenti ha generato un archivio contenuto, da tempo acquisito dalla ex Provincia di Udine, probabilmente minore di quello conservato all’interno di uno smartphone di un adolescente.
«Il rapporto di Carlo Innocenti con il Friuli – scrive Giuseppe Bergamini curatore del volume edito da Cierre– è di amore e di rispetto» e per questo documenta fin dalla metà degli anni Sessanta, lo sgretolarsi della civiltà contadina, l'evoluzione dell'artigianato ma anche il mondo degli zingari, l’emigrazione e i problemi sociali attraverso una fotografia non asettica, ma ricca di sentimenti e emozioni.
Ha ripreso in modo spasmodico manifestazioni religiose, architetture spontanee, artigiani, feste, avvenimenti, è entrato nei cortili, si è fatto aprire le porte delle case e dei ripostigli, è salito nelle vecchie soffitte, ha soprattutto parlato, dialogato prima di ogni ripresa per mettere a suo agio l’interlocutore, ha voluto documentare il lavoro e il tempo libero, la gioia della gente semplice e la sofferenza nelle case di riposo o nel manicomio di Sant'Osvaldo dove suo padre aveva lavorato per molti anni.
«Vorrei essere ricordato come fotografo del mondo contadino – afferma Innocenti – un cantore della mia terra, delle mie genti». Non vuole essere considerato un intellettuale, un radical chic, bensì un «antropologo non professionista», un fotografo da ricordare per il suo lavoro di documentazione. Una memoria storica fissata nelle immagini. Per sempre.
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