Il Friuli e il riscaldamento globale: si rischia di avere alluvioni e siccità e gravi dissesti per l’agricoltura

Il summit degli economisti ambientali a Udine: cosa succederà con 3 gradi in piú di temperatura
ANTEPRIMA REMANZACCO 23 GIUGNO 2003. SICCITA' NEL TORRE TELEFOTO COPYRIGHT FOTO AGENCY ANTEPRIMA
ANTEPRIMA REMANZACCO 23 GIUGNO 2003. SICCITA' NEL TORRE TELEFOTO COPYRIGHT FOTO AGENCY ANTEPRIMA

UDINE. Siete prigionieri di una banda di criminali. Avete una pistola con un caricatore da 100 colpi, di cui 95 vuoti e 5 con il proiettile in canna. Potete giocare alla roulette russa, oppure pagare un riscatto pari al 2% del vostro reddito attuale e futuro. Cosa scegliete?

Con questa cruda, ma efficace metafora, Francesco Bosello ha introdotto al recente convegno tenuto a Udine, il tema economico per eccellenza a proposito dei cambiamenti climatici: quali costi (economici, ambientali, sociali) sono attesi per effetto del riscaldamento globale, e cosa possiamo fare per limitarli al minimo?

Se c’è una piccola probabilità che sia in arrivo il prossimo diluvio universale, dobbiamo metterci a costruire arche come Noè? O munirci di stivali e ombrelli? E se poi non viene? Qualcuno pensa all’orrore di una diga in cemento alta come l’Ararat? E dove le parcheggeremo tutte queste arche, nell’attesa?

Sappiamo con ragionevole certezza che i fenomeni climatici sono strettamente legati al nostro modello di sviluppo, e in particolare all’uso dei combustibili fossili. Saperlo non serve tanto ad attribuire colpe o invocare l’improbabile ritorno a qualche arcadia precapitalistica, quanto semmai a capire che, almeno in parte, è in nostro potere agire: o per cercare di stabilizzare le temperature limitando le emissioni che ne sono la causa principale; o almeno per adattarci ai nuovi scenari, preparandoci a governarne gli effetti.

La valutazione è difficile proprio perché abbiamo di fronte uno scenario altamente incerto. La temperatura della Terra potrebbe aumentare di 6 gradi, ma anche non aumentare per nulla. Gli studi fin qui condotti hanno provato a immaginare quanto potrebbe costarci se il riscaldamento fosse contenuto a 2-3 gradi: si oscilla tra lo 0,5% e il 3% del Pil mondiale, o se preferite: tra i 500 e i 2.600 miliardi di dollari (l’anno).

Sono stime che considerano un insieme di voci di costo più direttamente monetizzabili: compensare il deficit idrico, fronteggiare le calamità idrogeologiche, riduzione della produzione agricola, danni alle cose, effetti sulla salute e sull’incolumità delle persone, etc. Quindi, una sottostima, che non tiene conto delle tante cose che non hanno valore di mercato, ma non per questo sono meno importanti.

Se il riscaldamento dovesse essere ancora maggiore, gli sconvolgimenti sarebbero così catastrofici che nessuno si azzarda a proporre dei numeri: certamente non dobbiamo attenderci un incremento degli impatti “lineare”, bensì esponenziale. Dunque il 20% del Pil? Il 30%? O ancora di più? La risposta è: non lo sappiamo. Stimiamo però pari al 5% (da qui la metafora iniziale) la probabilità che un simile scenario possa avverarsi.

A fronte di questi costi temuti, vi sono quelli, più o meno certi, che dovremmo sostenere per agire subito. Che sono alti: 1-2% del Pil mondiale solo considerando gli interventi sul settore energetico. Ma sufficientemente bassi per giustificare un piano d’azione come quello approvato a Parigi, teso a stabilizzare l’aumento delle temperature a un massimo di 1,5° da qui al 2100.

Quando si deve prendere decisioni in un contesto probabilistico, la parola chiave è resilienza: che vuol dire capacità di adattamento agli shock, riduzione della vulnerabilità agli eventi. Essere preparati, insomma. Perché – altro tema emerso dalla discussione – le calamità colpiscono tanto più duramente, quanto più il territorio è impreparato a riceverle.

Ci sono poi da valutare gli impatti distributivi: il cambiamento climatico è un grande rimescolatore di carte a livello globale. Alcune zone del pianeta si inonderanno, altre si desertificheranno; in compenso altre conosceranno un “optimum climatico”. Non avremo più il Brunello di Montalcino, ma avremo in cambio quello di Rovaniemi.

Cosa deve aspettarsi il Friuli da questa lotteria? L’approfondito studio condotto da Arpa, cui ha fatto riferimento Stefano Micheletti, illustra in modo analitico i possibili scenari – ancora una volta con l’avvertenza dell’estrema difficoltà di fare previsioni, ancora maggiore a una scala micro-territoriale. Come tutte le regioni a clima temperato, la nostra ha molto da temere: non la desertificazione, ma certamente una maggiore frequenza di situazioni di stress: vuoi perché la poca neve riduce i deflussi al disgelo, vuoi per la ricorrenza di fenomeni alluvionali e di dissesto, vuoi per le ondate di calore estive. Consumeremo meno combustibili d’inverno, ma in compenso useremo l’energia d’estate per rinfrescarci.

La nostra agricoltura subirà probabilmente i maggiori impatti. Uno studio da noi svolto qualche anno fa mostrava che la – relativa – bassa probabilità di siccità estive giustifica, da parte delle aziende agricole, scelte colturali “rischiose” (colture idroesigenti, ma più redditizie); solo se la frequenza di tali eventi superasse la soglia critica dei 5 anni sarebbe il caso di cambiare modelli colturali. Ma è proprio quello che potrebbe succedere.

Qualcosa si è fatto, anche se non ancora abbastanza. L’Europa è in prima linea, e con il piano “20-20-20” (-20% delle emissioni e dei consumi di energia, +20% della produzione di energia da fonti rinnovabili) ha già fornito un contributo importante, raggiungendo il traguardo persino in anticipo. L’uso intelligente di incentivi e strumenti economici ha limitato i costi. Le nuove direttive sull’economia circolare alzano ulteriormente l’asticella degli obiettivi. Nella speranza che questo impegno consenta al Vecchio Continente di acquisire la leadership tecnologica.

Tutto questo non basta, evidentemente, e anche molti interventi dalla sala lo hanno sottolineato.

Ma gli sforzi che ci attendono non ci devono spaventare. Quello che le politiche internazionali ci sollecitano è, soprattutto, una grande transizione verso un nuovo modello di economia sostenibile. Nuovi materiali, nuove fonti di energia, nuovi modelli di infrastrutture “smart”. Una crescita economica basata sui servizi e non sugli oggetti. Una mobilità imperniata sull’intermodalità, sulla condivisione, sull’efficienza energetica e materiale.

(*docenti e promotori del convegno a Udine)
 

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