Il dopo Mussolini affidato a Badoglio: la difficile rinascita dell’Italia dalle macerie

Ottant’anni fa la svolta che segnò la fine del fascismo. La controversa figura del generale che gestì il cambiamento

Andrea Zannini

Il 26 luglio 1943, il giorno dopo la caduta del governo Mussolini, nel pieno della guerra, l’Italia si trovò con a capo del governo un generale.

Non un generale qualunque: Pietro Badoglio (1871-1956), una delle figure cardine per capire la storia del nostro Novecento, alla quale tuttavia i manuali di storia dedicano al massimo una riga.

Piemontese, di estrazione modesta, Pietro Badoglio era il classico uomo nuovo per un esercito ambizioso come quello italiano di inizio Novecento.

Dopo una prima esperienza in Africa, si fece strada nel 1911 nella guerra conto l’impero ottomano per la conquista della Tripolitania e della Cirenaica; quindi si distinse sul fronte goriziano, nel 1916, architettando e guidando la conquista del Monte Sabotino, plesso strategico della destra Isonzo.

I meriti sul campo gli valsero il comando del XXVII corpo d’armata, che fu però tra i responsabili del crollo del fronte italiano a Caporetto.

Mentre il suo protettore, Luigi Capello, fu accusato per la sconfitta assieme a Cadorna e ad altri comandanti, Badoglio, che significativamente non avrebbe mai scritto una riga sulla disfatta, ne uscì indenne, forse anche per il suo contributo decisivo alla ritirata oltre il Tagliamento, che riuscì a rallentare la dilagazione nemica .

Fu vice di Armando Diaz e a lui si deve nel 1918 quella profonda riorganizzazione dell’esercito, ormai oltre il Piave, che avrebbe consentito la riconquista del Friuli con la battaglia di Vittorio Veneto.

Dopo la fine del conflitto, nominato senatore, nel 1919 fu commissario straordinario per il Friuli Venezia Giulia ma nei giorni complicati dell’impresa di Fiume di Gabriele d’Annunzio, partita da Ronchi, se ne tirò fuori, accettando la nomina a capo di Stato Maggiore dell’esercito.

Negli anni incerti dell’ascesa del fascismo si defilò, mantenendo posizioni appartate, salvo dimostrare, quando nel 1925 Mussolini sigillò il Paese nella dittatura, la propria fedeltà al duce, che lo nominò nuovamente capo di Stato Maggiore dell’esercito.

«Cominciò allora – ha scritto il grande storico Piero Pieri – il grande equivoco, destinato a protrarsi per quindici anni e in forma sempre più grave dopo il 1936», vale a dire l’instabile triangolo tra Badoglio, che di fondo non era fascista, Mussolini, che non poteva non servirsi della più alta autorità militare dell’esercito, e il re che, estromesso di fatto dalle decisioni militari, si tenne vicino il piemontese.

Onorato da Mussolini con il nuovo titolo militare di maresciallo d’Italia, e dal re con le massime onorificenze del Regno, nel 1929 fu inviato nuovamente in Libia, dove in tanti anni non si era riusciti a stroncare la resistenza locale.

Con deportazioni di massa e la creazione di campi di concentramento, metodi che costarono la vita a decine di migliaia di civili, ebbe la meglio sui ribelli libici, il cui capo Omar al-Mukhtār, venne impiccato pubblicamente.

La fama di Badoglio toccò il suo apice nella conquista dell’Etiopia nel 1935 dove, guidando un forte esercito e utilizzando diffusamente i bombardamenti con armi chimiche (iprite) su civili e militari, ebbe la meglio sulle truppe del negus Hailé Selassié.

Proclamato l’Impero, fu nominato viceré d’Etiopia. Con l’avvicinarsi della guerra e la nomina di Mussolini a “primo maresciallo d’Italia”, Badoglio tenne un atteggiamento scettico sull’occupazione dell’Albania (1939) e sul possibile coinvolgimento in un conflitto.

Quando nel 1940 Mussolini decise invece in tal senso, Badoglio espresse la sua contrarietà ma non fece seguire a ciò alcun atto ufficiale, se non il ritiro a vita privata (aveva sessantanove anni).

Quando il re, dopo la seduta del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943, si trovò nella necessità di sostituire Mussolini, Pietro Badoglio rappresentava il profilo ideale per cucire quel delicato passaggio militare e politico. Secondo alcuni storici fu invece proprio un’istanza dell’esercito, resosi conto dell’ormai insostenibile situazione bellica, a pilotare la caduta del regime.

Prudente, o incerto, anche nel distacco da Hitler e nei contatti con gli alleati, Badoglio e il suo governo portarono il Paese nella peggiore condizione possibile all’armistizio, e ai fatti dell’8 settembre, con l’assenza dei comandi militari, il dissolvimento dell’esercito, lo sbandamento di centinaia di migliaia di uomini e il sacrificio di tanti.

Nel caos di quelle ore, il 9 settembre Badoglio fuggì assieme al re e alla famiglia reale dalla capitale, si imbarcò a Pescara e si mise al sicuro a Brindisi. Infarcito di ex-fascisti, il suo secondo governo si barcamenò mentre gli alleati risalivano lentamente la Penisola e si organizzava però la Resistenza ai tedeschi.

Nell’aprile 1944 fu sostituito dal governo di unità nazionale guidato da Ivanoe Bonomi, che ebbe sede provvisoria a Salerno, voluto dal Cln e al quale prese parte anche il Pci di Palmiro Togliatti.

Badoglio morì nel 1956 nel suo paese d’origine, Grazzano Monferrato, che nel 1938 era stato rinominato in suo onore Grazzano Badoglio.

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