Il 29 giugno 1967 moriva Primo Carnera: così Tortora raccontò il “gigante buono”

Il 29 giugno 1967, a Sequals, «l’ultimo gong era suonato per Primo Carnera alle dieci e cinquantasette»: scriveva così il compianto Enzo Tortora, ancora lontano dalla crudele e vergognosa vicenda che nel 1983 lo avrebbe ingiustamente condotto alla gogna mediatica e in carcere.

Tortora espresse i suoi sentimenti di stima e di amore per Carnera in due articoli apparsi nelle edizioni del 21 maggio e dell’11 luglio del settimanale “La Domenica del Corriere”.

Ricevuta la notizia che Carnera sarebbe rientrato dagli Stati Uniti a Sequals per morire nella terra in cui era nato, Tortora scrisse che il Gigante buono tornava «guidato da un misterioso, commovente istinto, all’angolo del primo round», per raccogliere «la sua vittoria più grande: l’affetto della gente che gli vuole bene».

Poi, viste le fotografie che ritraevano l’aspetto ormai molto sofferente di colui che era stato l’Uomo più forte del mondo, dichiarò di accorgersi più che mai del bene profondo che nutriva per il campione friulano: fu lui – continuava – «il Superman, il Batman dei nostri minianni».

Era un «ciclope buono, mite», e qualcuno (i gerarchi fascisti) tentò anche di «appendere una ideologia ai suoi bicipiti, grandi quanto la sua pazienza. Ma non ci riuscirono. Carnera era prima di tutto Carnera. E Carnera è di tutti»: è per questo che il suo nome era diventato «epoca, aggettivo e proverbio: una sorte, questa, che tocca solo agli eroi schiettamente popolari, che seppero essere gente con la gente e diventare misteriosamente proprietari dei nostri sogni».

Tortora si recò a Sequals proprio nel giorno della morte di Primo. Il silenzio angoscioso fu rotto alle undici in punto dalla campana della chiesetta di Sant’Andrea, mentre il giornalista genovese era davanti al cancello di casa Carnera. «A l’è muart», dissero semplicemente e sommessamente i contadini… e «non c’era bisogno di aggiungere altro», perché tutti sapevano di chi si parlava. Ma, ovviamente, erano numerose le persone che vegliavano in quegli ultimi istanti di vita del campione.

Piangeva il maresciallo dei carabinieri Rocco Resciniti, che aveva rinunciato alle ferie pur di stare vicino a Primo fino alla fine. Usciva affranto da casa Carnera monsignor Dalla Pozza. Il sindaco Vincenzo Faion, dal canto suo, ripeteva: «Quanto bene, quanto bene ha fatto a questo paese… Primo non poteva farci un regalo più grande: sceglierci per morire». Muti, invece, si chiudevano nel dolore gli amici del locale Al Bottegon, dove Primo giocava allegramente con tutti a briscola.

«Carnera era Sequals e Sequals era Carnera», perché Primo era «la ricchezza più grande» di quel paese che portava sempre nel cuore: amato e celebrato nel mondo, il gigante friulano era «l’alfiere delle pazienti, umili, spesso misconosciute virtù del Friuli», capace di costruire la sua storia con «la muta, ostinata volontà dei friulani».

Primo Carnera, formato «dalla medesima pasta degli uomini, degli operai, dei muratori della Carnia e dell’Udinese che a New York costruivano, sospesi a vertiginose altezze, i grattacieli», era diventato egli stesso «mattone su mattone, piano per piano, un grattacielo». Ma il modo migliore per salutarlo era ricordare il suo contagioso sorriso, che aveva ispirato il proverbio: «Ride bene chi ride Primo».
 

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