I bersaglieri in piazza Unità: era il 3 novembre del 1918

Un fremito attraversa la folla: “I vien, i vien! I xe qua”. Sono le 16. 20 di una giornata piovosa, il 3 novembre 1918, e il lato epico dei giornalisti si innalza sempre più raggiungendo vette vertiginose in cronache dense di palpiti, urla, emozioni tricolori tra un delirio frenetico mentre c’è chi grida: “Da oggi i nostri morti non sono morti”.
Sono una quindicina gli inviati imbarcati sul cacciatorpediniere Audace, scelto per un compito storico: portare l’Italia a Trieste così da unirla a sé, alla fine della guerra che però è ancora in corso in quanto l’armistizio di Villa Giusti scatterà solamente il giorno successivo.
Bisogna fare in fretta per evitare colpi di mano e ribadire l’italianità di Trieste (la stessa cosa avviene intanto a Trento) prima che altri sguardi e appetiti si posino sulla straordinaria città, che attende con ansia il proprio destino dopo anni durissimi di sofferenza, miseria, fame.
I giornalisti affiancano sulla tolda della nave il generale Carlo Petitti di Roreto, designato quale prossimo governatore di Trieste e della Venezia Giulia per amministrarle nella complicata, delicata fase di passaggio.
L’Audace è seguito da altre navi e da nugoli di maone, vaporetti, barche varie che compongono la flotta messa in piedi velocemente per portare nella città redenta un piccolo esercito formato dai 1400 uomini della II Brigata bersaglieri comandata da Felice Coralli, oltre a carabinieri e altri militari, con i quali avverrà quanto sta scritto in una lapide breve e aulica, com’è nella prassi, che campeggia lungo le rive dalle parti di piazza Unità: “Primi dalle navi d’Italia all’amplesso di Trieste balzarono i bersaglieri”.
Ma chi erano, dunque, questi bersaglieri designati per una missione tanto importante, ancora evocata e celebrata a un secolo di distanza? Tutto sommato è una storia poco conosciuta e narrata, almeno popolarmente parlando. Si sanno i dettagli principali, ma non gli aspetti minimi, eppure essenziali, all’origine di una spedizione che solcò l’Alto Adriatico, partendo da Venezia, come momento finale e traguardo agognato d’una guerra.
A raccontare come andarono i fatti, chi furono i protagonisti, quali i passaggi fondamentali e soprattutto cosa accadde dopo, è il libro “Le piume, la corsa, il tricolore”, scritto dal generale in congedo Paolo Stendardo e pubblicato (con tante efficaci immagini d’epoca) da Luglio editore. Sarà presentato oggi, giovedì 31, alle 18, nella biblioteca Joppi di Udine, nell’ambito della seguitissima rassegna “Dialoghi”.
Occasione utile per ripassare la materia in vista delle commemorazioni novembrine e approfondire un po’vicende e caratteristiche di questo corpo noto per il cappello piumato (con piume di gallo cedrone), la cui funzione nell’Ottocento era di protezione e anche di mimetismo.
Quando il generale Diaz progettò lo sbarco a Trieste per gelare le eventuali rivendicazioni jugoslave, puntò sui bersaglieri, fanteria abile e di movimento pronta a tutto, reparti collaudati e dislocati non lontano da Venezia, da dove si doveva partire e con un balzo prepotente approdare in fretta nell’altro lato dell’Adriatico attraversando acque presidiate dal nemico. Un libro da leggere, quello di Stendardo, e una conferenza da ascoltare perché fanno rivivere ore cruciali attraverso i diari, le testimonianze dei protagonisti, i documenti inediti. Ogni pagina urla il sollievo per una guerra terrificante che finisce e una grande speranza.
La si coglie in particolare sui volti della gente comune, tra cui spuntano due simpatiche mule triestine, salite su una bitta del molo, con i fiori in mano e i loro eleganti cappellini, per vedere meglio e applaudire i nostri. Un quadretto straordinario, forse l’immagine più emblematica nel ricordarci una giornata piovosa e felice, prima che arrivi la sera.
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto