Guevara, storia di un leader scomodo
Tradito e liquidato mezzo secolo fa in Bolivia. Medico, ministro, guerrigliero nell’era di Fidel e Kruscev
Povero Che Guevara! Se fosse vivo oggi, verrebbe annoverato fra i tanti populisti, uno che con le sue parole infiammate prometteva agli ultimi della terra paradisi per loro irraggiungibili, se non obbedendo a lui. E della sua generosa semina rivoluzionaria, che ha fatto germogliare fiori rossi nel petto di tante generazioni, resterebbe adesso soltanto il folclore, se non la gramigna incarnata da uno come il pluriomicida Cesare Battisti, sfuggito finora alla giustizia italiana grazie alla subcultura di tanti della
gauche
francese e di un discutibile epigono latino-americano come Lula, un presidente del Brasile che fra molti successi e molti errori, fra cui l’arraffare segreto di beni immobiliari, ha pensato di salvarsi l’anima blindando il “compagno” Cesare, un perseguitato politico della crudele Italia. Ora questo perseguitato, sentendo il terreno franargli sotto i piedi, ha tentato di trasferirsi in Bolivia più o meno all’altezza della stessa zona di Higuera dove all’alba del 9 ottobre 1967 il Che fu ucciso con dimostrato sadismo dall’esercito locale o forse, come qualcuno crede, direttamente da uomini della Cia presenti non a caso sul posto.
Ma la Bolivia che ha tentato vanamente di raggiungere il nostro presunto Garibaldi è oggi assai diversa da quella dove per pochi mesi Guevara e i suoi uomini cercarono di accendere un “foco” insurrezionale. I
campesinos
, vale a dire i contadini poveri, principali destinatari della sua predicazione, prosperano oggi coltivando la coca, pianta base per la produzione di cocaina e hanno portato al governo Evo Morales, uno di loro e per di più indio, guardato con dispetto dai molti stati meticci del sub-continente ma, vedi tu, amato dall’Fmi. Altri fiori del male sbocciati all’ombra della Cuba castrista e (sempre meno) guevarista sono il compianto leader venezuelano Hugo Chavez e il suo successore Nicolas Maduro entrambi pronti ad affamare e soffocare la propria gente in nome della lotta all’imperialismo yankee, paravento dietro cui si nascondono dittature quelle sì populiste e spietate, alimentate soltanto dal petrolio come gli sceiccati medio-orientali.
Proseguiamo nel paradosso. Fosse vivo oggi, che cosa ne penserebbe Che Guevara della Cina attuale? A quella del presidente Mao dedica non poche pagine di elogio nella sua opera omnia, pubblicata a cura da un tale Regis Debray, intellettuale organico parigino accusato di doppio-giochismo, perfino di aver tradito lui il povero Che, segnalandone la posizione ai suoi aguzzini.
Il capitolo del “tradimento” rimane ancora, a cinquant’anni dalla sua cattura, un capitolo seppellito con le spoglie del rivoluzionario. Chi ne fu l’autore? Debray, la Cia, gli stessi campesinos o addirittura, sembra incredibile, Fidel Castro il compagno di lotta contro Fulgencio Batista, l’orrendo capo di una Cuba trasformata in puttane e casinò, cacciato dai leggendari guerriglieri della Sierra Maestra il 26 luglio 1959.
Del governo che ne nacque con le insegne del Partito Comunista il Che fu ministro dell’Industria e dell’Economia: quanto di più lontano da lui, che prima girò il Sudamerica in motocicletta per poi laurearsi in medicina in Argentina, sua terra natale, dove acquistò il nomigliolo, perché, da buon lunfardo, intercalava il suo parlare con la parola
escucheme
, ascoltami, contratta poi in Che. Da quel governo Guevara se ne andò dopo due anni, per diventare un battitore libero, paragonato impropriamente a Leon Trotsky, della “revolucion”.
Prima se ne andò in Africa, dove sperava con ingenuità di far sollevare i dannati della terra in Congo e poi in Angola. Ad Algeri tenne un discorso che molti considerano la sua condanna a morte: vi si raccomandava, ai paesi del continente, di lottare “contro l’imperialismo” sovietico. All’Avana Castro reagì pubblicando una lettera dove Guevara rinunciava a ogni carica e alla cittadinanza cubana. Dall’altro lato dell’Atlantico il Che si infuriò e, secondo il racconto di un suo fedelissimo, prese a calci la radio urlando: «Ecco dove porta il culto della personalità!». Ma il Cremlino, grande sostenitore dell’Isola caraibica, che riforniva di tutto e che si era spinto sull’orlo della guerra nucleare per la famosa installazione di missili sovietici a Cuba contrastata duramente da Kennedy, non amava sentirsi accusare di “imperialismo” né correre appresso a una scheggia impazzita capace di colpire chissà dove e quando.
Kruscev chiese a Castro la testa del Che. E lui, quando egli tornò a Cuba dall’Africa gli propose di andare a fare danno in America Latina, più specificamente in Bolivia. Il
lìder maximo
seguiva personalmente i preparativi della spedizione, garantendo il sostegno del partito comunista boliviano e degli agenti segreti dell’Avana dislocati laggiù, nonché la formazione di nuove colonne. Quando Fidel appariva al campo il Che, forse presago del destino che lo aspettava, si teneva in disparte. Sbarcando coi suoi uomini nel nord della Bolivia e arrampicandosi sulla montagna, la spedizione non trovò mai gli aiuti promessi da Castro. Inutilmente cercarono di contattarlo per radio, ma l’Avana non rispondeva.
La decisione era quella di liquidare il Che? Così avvenne, ma la verità sulla sua morte forse la sapremo quando Cuba e Mosca si libereranno dal culto della personalità che le accomuna. A meno che Trump non rinfocoli il nazionalismo cubano e le sue leggende, a cominciare da quelle del Che. Una sua gigantografia occupa la parete di un albergo sul lungomare, le sue spoglie travagliate riposano nel mausoleo di Santa Clara: dove “il sol de tu bravura, te llevò hacia la muerte”; come dice la più famosa – e commercialmente redditiva – fra le tante ballate che esaltano il suo inutile sacrificio.
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